30.11.11

La poesia civile di Pasolini

Il senso della tradizione contro l'orrore del mondo
di Massimo Onofri
 
Su Pier Paolo Pasolini continua a pesare un giudizio di Giovanni Raboni che chiudeva un articolo del 1993, apparso sul «Corriere della Sera», intitolato Ma quanto durerà la poesia di Pasolini? Raboni, dopo averne sottolineato «la genialità polemica, la mobilità, la chiaroveggenza», concludeva affermando che «questo grande intellettuale» fosse stato poeta «innanzitutto e in tutto, nel cinema come nel teatro, nella pubblicistica come nel romanzo - in tutto [...], tranne che nella poesia».

Un giudizio che continua a pesare, s'è detto: tanto più che Raboni è stato, con Luigi Baldacci e Pier Vincenzo Mengaldo, il lettore di poesia più intelligente e acuto, più innovativo e spregiudicato della sua generazione. In primissima fila nel secondo Novecento: come dimostra adesso il volume postumo, dove ritrovo il giudizio in questione, appena pubblicato da Garzanti per l'ottima cura di Andrea Cortellessa: «La poesia che si fa». Cronaca e storia del Novecento poetico italiano 1959-2004. Ha ragione Raboni? E in che modo gli si potrebbe rispondere? Forse come ha fatto Alfonso Berardinelli in occasione di un dibattito pubblico, il quale s'è trovato provocatoriamente ad osservare che, se le cose stessero così come Raboni le pone, Pasolini non sarebbe meno poeta, d'uno che invece praticasse la poesia solo nel recinto di un genere limitato e riconoscibile. Tutt'altro per Berardinelli: essendo assai meno poeta, di fatto, chi lo è soltanto in versi, rispetto a colui che, invece, riesce ad esserlo in ogni tipo di attività, se non altro per meri motivi di quantità. Le notazioni di Raboni e Berardinelli, solo apparentemente paradossali, ci consentono, per altro, di impostare al meglio proprio il discorso sulla produzione in versi di Pasolini, considerata per sé stessa, senza riferimenti al resto dell'opera: là dove lo scrittore friulano, dentro il Novecento crociano ed ermetico, quello fondato sulla distinzione drastica di poesia e non-poesia, ha saputo dare prova di una ricerca che rivendicava e proponeva i diritti, diciamo così lirici, dell'impoetico e del prosastico, almeno a partire dalle sorprendenti «Ceneri di Gramsci» (1957) sino ai detriti e alle scorie di «Trasumanar e organizzar» (1971). Ecco: qual è stata, nella storia della poesia italiana, l'importanza delle «Ceneri di Gramsci»? Libro che, se molti considerano come il migliore in versi di Pasolini, non tutti reputano un capolavoro: a cominciare dallo stesso Berardinelli, che lo ha giudicato disuguale ed imperfetto, come tutte le opere di Pasolini, che non avrebbe mai attinto al capolavoro. Credo sia giusto, a questo punto, ricordare fatti noti: se non altro perché si tende a rimuoverli. Ecco: quale considerazione si avrebbe, oggi, della letteratura popolare e della poesia in dialetto, se non ci fosse stata anche, negli anni Quaranta e Cinquanta, la battaglia dell'antiermetico e gramsciano Pasolini, con la sua produzione in proprio (mettiamo «Poesie da Casarsa», del 1942) e la sua attività di saggista e critico, culminata in «Passione e ideologia» (1960)? E ancora: sarebbero stato lo stesso quel processo che ha visto la poesia italiana compromettersi, sempre di più, con la prosa e la narrativa, senza le guerre di Pasolini? Ritorno alla domanda sull'importanza delle «Ceneri»: per rispondere che potrebbe stare nel tentativo di candidarsi come proposta di una poesia civile, lavorata dentro una nuova dimensione oratoria, tale da smentire la persistente convinzione crociana dell'impossibilità d'ogni allenza, a vantaggio della poesia, tra prosodia ed eloquenza, metrica ed ideologia. Un tentativo molto difficile e coraggioso sulla scena italiana, se si pensa che, quanto ad eloquenza civile, l'Italia aveva conosciuto, non certo la passione democratica di Withman, piuttosto la retorica nazionalista di Carducci e D'Annunzio. In questo senso, «Le ceneri» hanno qualcosa di prodigioso. Senza nemmeno negarsi a certe accensioni di lirismo che non si dimenticano, come nell'incipit della VII sezione che dà il titolo al libro: «Non è di maggio questa impura aria/che il buio giardino straniero/fa ancora più buio, o l'abbaglia». Per non aggiungere che «Le ceneri», ben oltre la scommessa civile, rappresentano anche molte altre cose: e vi si sente particolarmente la lezione di Longhi, che Pasolini aveva ascoltato all'università di Bologna. Prendete la I sezione, «Appennino»: non è facile trovare, nella poesia italiana del Novecento avanzato, un sentimento del paesaggio, una vocazione pittorica paragonabile a questa, se non, forse, nel Betocchi di «L'Estate di San Martino» (1961). Mentre onnivoro resta il senso della tradizione: se c'è dato di avvertire persino qualche eco, sempre in «Appennino», delle «Città del silenzio» di D'Annunzio. Ai paradossi di Raboni e Berardinelli, per restare ancora all'indefessa volontà pasoliniana d'essere poeta, vorrei aggiungerne un altro: che se il Pasolini romanziere e borgataro di «Ragazzi di vita» (1955) e «Una vita violenta» (1959), alla lunga, non regge, ciò si deve proprio alla resistenza d'un lirismo e d'una letterarietà, pagati forse in pedaggio ai nemici ermetici, che male si combina con gli esibiti innesti dialettali, magari in nome d'un frainteso (e gaddesco) plurilinguismo. Ma il Pasolini narratore, occorre ricordarlo, è ben altro e di più: basterebbe ricordare, i friulani e autobiografici «Amado mio» e «Atti impuri», cui Pasolini lavora tra il 1948 e il 1950. Ma se si vorrà trovare il capolavoro che, lo abbiamo visto, anche critici autorevoli negano, io credo che bisognerà cercare nel postumo e incompiuto, magmatico, voracemente inclusivo di tutta la realtà, scandalosissimo «Petrolio»: là dove Pasolini arriva all'informale, nel disperato tentativo di dar forma a quell'informe che è diventata la vita nell'Italia del neocapitalismo realizzato. Un romanzo postremo e feroce: in cui anche la lingua, come il corpo sociale, è andata in metastasi. Ma vorrei tornare al Pasolini poeta, quello supremamente imperfetto di «Trasumanar e organizzar». Un libro costitutivamente destinato al fallimento: proprio perché vi si tenta l'intentabile. Come poteva essere altrimenti? In «Trasumanar e organizzar» confluisce di tutto, in una specie d'azzeramento della propria carriera poetica, e nella fuga da ogni letterarietà: pamphlet e invettiva, recensione e articolo, comunicato stampa e preghiera, manifesto. Un libro che dimostra come per Pasolini, in ciò pienamente uomo del Novecento, le idee e i progetti contano sempre più dei risultati, così come l'ideologia è sempre più importante dell'estetica. Ho detto: uomo pienamente novecentesco. E lo ribadisco: nonostante la sua polemica contro le avanguardie coeve, in nome della tradizione e dello sperimentalismo. Pensate solo a come l'opera, nella fase ultima della sua vita, soprattutto nell'ambito teatrale, gli slittasse sempre più in direzione della performance. Non per niente è stato, dentro il secolo passato, l'autore che ha proiettato, più di ogni altro, l'ombra della biografia sulla propria opera. Insieme a D'Annunzio. La cui vita inimitabile può apparci ora come parodiata da Pasolini: laddove, al virilismo superomista, si è sostituita una scandalosa omosessualità. Anche in questo Pasolini ci ha spiazzato.
http://www.pasolini.net/notizie_lanuovasardegna.htm







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