7.5.11

L'ATTESA

                                                              
La sala d'attesa mostra parte delle grosse budella dell'edificio.
Le finestre sono in alto, si distinguono agevolmente i piedi delle persone che vanno e vengono e qualche ramo d'albero piegato a terra dal vento color del fango di oggi.
Ospedale oncologico. Reparto mammografie.


Corridoio inodoro. Colori incolori. Silenzio greve. Riviste sgargianti delle più dozzinali, ripiene di falsi segreti di chissà chi, tanto è ininfluente. Si sfogliano a casaccio, ci si immerge in quella finzione che comunque ha un tarlo di fondo per tutte noi: ce l'ho non ce l'ho.
Il tumore, ovvio.
O cancro, o brutto male. Come se ci fossero dei mali belli!
C'è un cartello: tenere spenti i cellulari. Una signora messaggia in modo compulsivo.
Un'altra sta consumando il corridoio a furia di andare avanti e indietro. Due tizie bisbigliano in tono concitato. Una signora anziana fissa il muro davanti a se'. Tutte stringiamo come santini i nostri referti precedenti.
Un uomo si lascia sfuggire: mia moglie è dentro da quaranta minuti, come mai che succede.
E tutti sappiamo il sottinteso della frase. Scatta la gara delle frasi tranquillanti. Proprio così: tranquillanti, da somministrare in tono convinto, non più di tre o quattro per volta, pena sembrare falsissimi. Poi una porta si apre, l'infermiera si affaccia, qualcun'altra viene convocata,  scambio di sguardi e si ricomincia ad attendere il turno.
Mai come in luoghi come questi, si abita il dubbio, lo si percepisce incarnato, grasso verme che di noi si nutre.
Mi siedo sul sedile di plastica scaldato da un'altra ansia prima della mia. Penso ai verdetti.   Le diagnosi sono verdetti e mi chiedo come facciano i medici a sopportare  il momento topico della rivelazione infausta. Il tradimento del corpo.
Si chiacchiera poco. Queste sale di attesa sono luoghi di isolamento, troppo intensa l'oscillazione fra  paura e speranza.
Alzo gli occhi per l'ennesima volta verso quel mondo color caffellatte dietro i finestroni, fisso le scarpe che transitano, le geometrie delle scale antincendio. Un altro dei mondi possibili.
Poi l'infermiera scandisce il mio nome.

Annalisa Ferruzzi


1 commento:

  1. Ci sono stata, ho visto il luogo, mi sono immersa nell'ansia descritta da Annalisa. Ora il viaggio nella terra della paura è un ricordo. Uno di quei viaggi che non vorrei mai ripetere.Tuttavia è una ferita nella memoria che non si chiuderà mai,diventando, malgrado tutto, un'esperienza che cambia, non sempre in peggio, la visione del nostro futuro.Ti abbraccio Annalisa.
    Lella

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