11.11.11

IL TERREMOTO

La crepa nel muro della camera da letto soccorreva l’ipotesi di un cedimento delle fondamenta
dell’edificio attiguo alle sorde mura della Curia: o per un accidente naturale, l’erosione dovuta ad un corso d’acqua sotterraneo, o per le avvisaglie del terremoto.

Dal quale, prima che la persona, occorreva salvare gli effetti, abiti e trucchi dei travestimenti, tutta la corrispondenza sentimentale scambiata fra difficili coabitanti, l’estro dell’artista e la normalità della condotta. In quelle lettere, raccolte da un nastrino rosa, erano rappresentate la fragile trama del rapporto, le scorrerie dei sentimenti, la malinconia degli abbandoni. Non ultima la collezione di scarpine di raso rosso con fibbia con fibbia dorata e tacchi a spillo, essenziali a quella sua buffa inconfondibile andatura, e le sgargianti giarrettiere, le collane di false perle, gli anelli i bracciali gli orecchini di pendula foggia.
E, infine, la lettera d’encomio del capo struttura con quell’inizio memorabile: “Gentile signora, l’ho veduta ieri sul solito marciapiede e non senza emozione ho scambiato con lei, raffinata e attraente, uno sguardo indimenticabile….”

Ma si, al capo struttura, che lei chiamava Cammello per quella tipica gobba fra le gambe, doveva comunicar ela novità. Percorse a cauti passi il corridoio in fondo al quale ciondolava il telefono a gettoniera.
“Si, sono proprio io,” disse una voce normale”, ma sai, ho tanto fretta e un po’ di paura. Sola, sono sola. Ho sentito ancora un piccolo boato.
Com’è cominciato? Non lo so, la crepa nel muro, il lampadario ch oscillava, ma che importa eh?
“ Se le cose stano veramente così, povera cocchina,” era la voce quasi afona del capo struttura,” o Signore Signore, il palazzo potrebbe precipitare nella voragine!”
“Mio diletto, in un abisso di sofferenza, o all’inferno. Perciò non abbandonarmi.”
“Vengo a salvarti,”egli rispose svogliato.
Forse il capo struttura riteneva che il terremoto fosse una trovata e il pericolo un pretesto.
Lei si era ripromessa una scenata di gelosia, di grande e bell’effetto, il trucco disfatto, il labbro carnosissimo imbrociato, capelli smossi, eccetera eccetera, e però, avendone l’occasione e spinta dall’ozio e dal rancore invincibile per la rivale, una volgarissima petulante, avrebbe potuto ucciderlo.
Lo accolse con enfasi.
“Finalmente,” disse, “Finalmente!”
“Tutta la città,” egli disse con ironia, “ è attraversata da occulti corsi d’acqua, che sfociano in grotte scintillanti ostruite dai nostri escrementi.”
“E che cosa fa la nostra amministrazione?” lei domanda inviperita.
“Giusto, ecco cosa fa, acquista ruspe per eliminare gli effetti del terremoto.”
La ruspa con le fauci spalancate sostava davanti al muro di cinta della Curia, avvolta in un chiarore biancastro, e il conducente, un giovane sbarbato, piangeva senza ritegno per quel guasto meccanico.
La maggior parte di quelle macchine era fuori uso.
“Rilassati,” lei disse, e s’inginocchiò e raccolse i capelli, e con un moto di falsa esitazione posò la fronte limpida sulla gobba dell’ospite.
“Spero,” soggiunse con un filo di voce,” che tu abbia preso delle precauzioni.”
“Sono venuto con il tram a rotaie.”
“Evviva l’elettricità.”
“Evviva la prudenza,” egli disse, meno brusco.
La pressione appena accennata delle sue labbra lo addolciva; cedendo ancora una volta a quelle lusinghe le avrebbe scompigliato i capelli e ne avrebbe cercato la bocca.
“Dunque, “ lei disse con un sospiro,”andrai via con l’ultima corsa.”
Il tram a rotaie
 Saliva rutilante dalla città bassa, dopo la sosta al Civico. Le due vetture, strette, eleganti, con le ruote decorate da graziosi fregi, percorse dai brividi dell’elettricità,  imboccavano l’ultima curva sfiorando con la piroetta la prima casa patrizia della piazza.
Il tempo stringeva.
Il tempo, simbolicamente, era l’olio che diminuiva nella lampada affievolendone la luce e le persone che erano scomparse, abbagliate dalla sua vita stravagante, confuse dai suoi travestimenti, obbligate a misurarsi con l’imprevedibile.
“Figurarsi,” lei disse con voce indistinta, “se si fa scappare l’ultima corsa di questo tram ridicolo.”
Egli giaceva sul sofà col pene sepolto nella peluria rossiccia.
“Sei vento?”,lei domandò. “Sembra di si, proprio di si.”
Dalla lontananza si avvertiva il boato, il lampadario oscillò impercettibilmente. La possibilità dell’evento era raccolta, pronta ad esplodere, nella seduzione del tentativo. In quelle ore, col tempo contato, si poteva porre una conclusione al conformismo del capo struttura che aveva distrutto il legame, si, l’emozione.
“Ti ucciderò”, lei disse ridendo, con l’altra sua voce ambigua.
“Ma va là,” egli rispose seccato. “Va la che non mi fai ridere tu con questo trucco della tua doppia vita. No che non m’incanti. Sei normale, capito? Una normale qualunque.”
“Una puttana qualunque?”
“Se arrivi al punto di minacciarmi. Se manchi di stile.”
“E’ tardi. Rivestiti.”
“ Credo non sarà più possibile vedersi con metodica frequenza. Quando accadrà …”
“Se accadrà,” lei disse impaziente.” “Ma dobbiamo completare la finzione con un commiato?”
“Non è necessario,” egli ammise, sollevato, e cominciò a vestirsi.
E rapidamente la luce cominciò e declinare; ella, con la pupilla dilatata, osservò il sole impazzito che seguiva una traiettoria verticale per sprofondare in una chiazza di sangue sulla linea dell’orizzonte.
Il tramonto pulsava.
Lo baciò con disgusto sulla bocca, e appena quell’entità burocratica superò senza voltarsi la soglia, la linea dell’oblio, le impresse senza esitazioni la spinta sufficiente.
Egli penzolava nella tromba delle scale e lei, sconvolta dal successo del tentativo, ne teneva la vita residua avvinta ai polsi e singhiozzando diceva:
“O grazioso cammello, mio dolce signore, vuoi che precipiti con te all’inferno?”
“In cambio, quanto denaro mi offri?”
“ O gran mignotta!”
E rotolo giù, grigio, inerte, al settimo gradino della rampa antistante la porticina della camera mortuaria della Curia ove il più alto custode della dannazione ronfava anatemi.
Luigi Pes

                                            



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