11.11.11

IL PROCESSO

E’ una stanza buia quella in cui mi sento rinchiuso, in cui l’aria è costretta dal mio affanno ad abitare il mio corpo.


Sono accusato di un delitto di cui attendo la pena che scaturirà da un processo avviato da me stesso.

Non ho linea di difesa, non potendo scagionarmi dalla sconosciuta accusa e temo per la mia sorte poiché avverto la condanna negli sguardi della folla presente nei grotteschi tribunali che ospito alla disperata ricerca di una ragione che chiarisca la mia presenza.
Non c’è perdono per quelli come me, né merito benevolenza pietosa che mi consenta di allontanarmi anche di un solo passo da quello spazio tempo allo scopo di far luce sulla ragione che mi vede imputato, o sull’eventuale attenuante che giustifichi la mia oscura colpa.
Non mi restano che i sensi, un abito più grande del giaciglio che mi accoglie quando arriva il bisogno di sospendere la vita e di mettere a tacere il sesto senso che urla ininterrottamente nella mia mente: la ribellione, l’unica vera colpevole a cui collego le mie azioni e con cui, forse, in una circostanza occasionale sono stato sorpreso in compagnia.
Il mal comune non produce gaudio, appartenere a una massa non consola dove è reato persino unire sguardi o dialoghi che peggiorerebbero quel frangente assurdo che ci sorprende complici.
Ci viene consentita un'unica possibilità, come a tutti gli imputati, in cui tuttavia non sempre sopravvive l’istinto di conservazione, l’opportunità di difenderci che dovrebbe alleviare il peso del futuro senza futuro, che implica però il frugare nella memoria ormai stanca, poiché anch’essa incatenata al muro della nostra colpa, questa si accertata: non riconoscere affatto la nostra colpa.
Mi ritrovo a frequentare universi privati,  a guardare dall’alto le bassezze umane da cui credevo di essermi allontanato ritenendomi puro e dotato di moralità e a percorrere strade senza fine, carico di speranze e mete ignote quanto agognate che avrebbero cambiato l’orizzonte dei mille domani che mi attendevano.
 Ma ecco che il mio sguardo affonda nel pozzo profondo del mio essere dove il vuoto è immenso e tangibile e temo la consapevolezza che incombe , il timore  di aver raggiunto la meta di un viaggio che non ricordo di aver intrapreso.
Sento l’accusa nelle dichiarazioni di testimoni un tempo emarginati, ora giudici del mio silenzio troppo a lungo perpetrato.
Comprendo finalmente : la mia colpa è il mio codardo non agire, e il loro è  un coraggioso richiamo al dovere di una voce che ha preferito tacere per non frantumare una realtà coltivata nell’ignoranza.  
La solitudine mi toglie il fiato e ciò che resta di me non può fuggire, ho perso le gambe dell’immaginazione.

Ora la verità mi guarda, la vedo in quel frammento di specchio che è la mia coscienza.

Ed ecco che proprio lì, in fondo al pozzo, si materializza l’ultimo dei mie voleri, il temuto quanto meritato mezzo che metterà fine al peso di una verità che non mi risparmierà, che non risparmierà nessuno, perché nessuno è immune, siamo tutti complici dello stesso delitto.

Arriva dunque il momento che mi vede  accogliere il caritatevole gesto del giustiziere con la mano tesa, ad implorare l’arma della giustizia.

La forza della parola che disintegri il mio silenzio.

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