10.7.11

Bouganville

Che cos’è un’idea?
Credo che tutti lo sappiamo ma tutti proveremmo una qualche difficoltà a spiegarlo compiutamente, e soprattutto: siamo padroni delle nostre idee? Nel senso che possiamo decidere se averne o no? Io credo che non lo siamo, le idee nascono dentro di noi ma quando, come, con quali meccanismi e quali percorsi non lo sappiamo e forse non lo sapremo mai!
Ecco un’idea: un titolo e un incipit venuti così, senza ragione, un’idea nata unicamente dal fascino di due parole: bouganville e Penelope, senza che sapessi dove andare a parare, senza avere in mente un’idea più grande che la comprendesse in un racconto. Ma dalle idee ne nascono altre anche quando queste si esauriscono in vicoli ciechi. Ecco quindi la mia proposta: chi se la sente di continuare quello che ho scritto aggiungendo un altro pezzo e passando la mano sul blog a chi voglia continuare ancora? Può venir fuori un curioso racconto a tante mani, anzi tutta una serie di racconti parenti perché il gioco tenderà a ramificarsi in un albero che dovremo potare insieme per impedirgli di dilatarsi all’infinito.
Cosa ne pensate di imbarcarci in questo esperimento che, con la sua naturale voglia di espandersi, sembra ricordare tanto le nuvole del nostro caffè ?

Riccardo
 Bouganville

Penelope scendeva al mare lungo il viottolo polveroso. I suoi piccoli seni di quattordicenne parevano bucare la camicetta di organza che scendeva giù, fino a mezza coscia delle sue gambe lunghissime.
Tutt’intorno la luce abbagliante del mezzogiorno inondava la macchia facendo biancheggiare i tufi che ne sbucavano, il silenzio faceva tutt’uno con i cricchi assordanti delle cicale e su tutto incombeva la sterminata grancassa del sole.
Scendeva verso la distesa azzurra che, in basso, lambiva il verde dei cespugli marini dove qua e là, dal folto del lentisco, spuntavano ville troppo bianche macchiate dal rosso delle bouganvilles.
Penelope scendeva e la discesa accelerava il suo passo: “ ah! L’unghia…”  un calcio involontario in una piccola pietra. Si chinò, un pezzetto di smalto rosso era schizzato via dell’alluce destro. A casa doveva provvedere;  la sera, con la mamma, sarebbero andate in piazza, avrebbero preso il gelato nel viavai della folla dei turisti e lei ci teneva a indossare i nuovi sandaletti argentati col tacco alto che papà le aveva portato da Siena. Era il primo regalo alla sua femminilità che riceveva da un uomo, l’uomo per il quale nutriva un’ammirazione sconfinata, l’uomo che adorava e sulle cui ginocchia, come quando era bambina, avrebbe voluto passare la vita. Per mamma nò. Da quando si erano separati, due anni prima, per mamma provava una sorta di odio rancoroso.
Stava molto da sola Penlope, a sognare ascoltando musica dalle cuffie, a pensare a papà, ai tempi in cui avevano acquistato la villetta nella pineta che, l’estate, la liberava dalla noia pigra di Torino. Era felice allora.
Con papà faceva lunghe gite in barca, loro due da soli e si divertiva, orgogliosa del suo lavoro, a rassettare gli attrezzi da pesca mentre papà si immergeva, tornado a volte, con una murena che si dibatteva ostinata sulla fiocina. Mamma raramente li accompagnava, non tollerava l’odore della barca e preferiva rimanere a casa con la scusa del pranzo da preparare o scendere in spiaggia ad abbronzarsi e chiacchierare con le conoscenti.
“E togliti quelle cuffie Penelope” le gridava la mamma “esci, scendi alla spiaggetta, fatti degli amici. Sempre da sola!...” Ubbidiva pigramente, si toglieva le cuffie infastidita e si spostava sulla poltrona di vimini nel giardinetto con Guendalina, il suo giornalino preferito. Non aveva amiche, Penelope, e i ragazzi della sua età non le interessavano: tutti calcio, cellulari e videogiochi.   

 

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