10.10.11

Vannino e i mille ducati

“Buongiorno frate, è forse qui che vendete la cura contro il male?”
 L’uomo sembrava spaesato, ma sapeva ciò che cercava. Vannino dopo un attimo d’indugio disse: “avete trovato il posto giusto”.

Vannino era un vagabondo, se per tale intendiamo un uomo senza fissa dimora e senza una meta, ma un uomo senza meta può avere la sua dimora. Vannino era un errabondo per scelta, decise da un giorno all’altro di lasciare il suo paese per cercare novità. Qualcuno gli disse, forse sua madre o una delle compaesane che lui aiutava a portare al fiume le ceste piene di bucato, che bisognava vivere rettamente per guadagnare il paradiso. Glielo confermò Don Erminio, che bisognava fuggire dal peccato perché la sua famiglia non aveva possibilità. E per possibilità intendeva mille ducati per comprare l’indulgenza, o terre da cedere. Ma non lo disse, Don Erminio, il motivo. Mille e venticinque per le precisione, i venticinque per raggiungere Roma e mettersi in fila sulla grande scalinata. E anche avendo quei venticinque ducati, che per averli bisognava lavorare duro per un anno, non c’era nessuno che poteva mettersi in viaggio per andare a Roma. Perché il babbo di Vannino era morto l’anno prima, assassinato da due briganti di ritorno dalla collina, per rubare non si è mai saputo cosa, perché monete appresso non ne aveva, e portava indosso solo i cenci e la bisaccia con quel che rimaneva d’acqua e pane duro, dopo una giornata di fatica nei campi del suo padrone.

Rimaneva sua mamma Maria, che continuava a fare la donna di casa e far finta che andasse tutto bene, e un giorno sì e uno no si faceva dare a credito il latte e il pane per non far soffrire la fame a Vannino e ai suoi due fratellini e alla sua sorellina venuta alla luce neanche un anno prima. Nessuno della famiglia si era mai allontanato da quel paese. Il viaggio più lungo che conoscevano era raggiungere la piccola chiesa in cui Don Erminio registrava l’avvenuto impegno di seguire la messa domenicale e assolvere al donativo, ciascuno per le proprie possibilità. E le proprie possibilità erano stabilite da Don Erminio. Maria per la verità alla chiesetta non ci andava solo la domenica, ma anche il lunedì, a pulire le fredde pietre grigie e gli scomodi banchi e lo spigoloso altare, perché quando era morto il marito non aveva abbastanza soldi per pagare il funerale e con Don Erminio erano rimasti d’accordo così, che gli avrebbe dato quello che aveva e la rimanenza l’avrebbe pagata in sudore. Per questo anche avendoli, quei venticinque ducati, ma non li avevano, nessuno di quella famiglia poteva permettersi di partire pellegrino, perché chi partiva da solo era destinato a quasi certa morte per assassinio, e non si poteva fare un altro funerale. Così pensava Don Erminio.
Ma Vannino, da nuovo uomo di casa qual era diventato, si assunse le sue responsabilità senza dirlo a nessuno, perché non ce n’era bisogno né avrebbero capito. Non lo disse neanche a se stesso, perché non lo sapeva, desiderava solo partire e cercare cambiamenti. Non lo disse a sua mamma Maria che era al fiume, non lo disse a Don Erminio che si rigirava con le dita il suo rosario in tasca, non lo disse alle vicine che impastavano nuovo pane, né ai fratellini per non disturbarli dal rincorrere le galline, lo disse solo a sua sorellina Cecca che non aveva orecchie per intendere, perché a qualcuno aveva pur bisogno di dirlo. Le disse sussurrandole nell’orecchio che stava per partire senza meta e senza monete, e che sarebbe tornato con mille ducati per sistemare tutta la famiglia. La piccola Cecca frignò per assenso, pensò lui, così la portò dalla vicina con la scusa di andare da Messer Ernesto argentiere cesellatore, e diventò vagabondo.
Diventò vagabondo quasi nell’anno santo del giubileo, mancavano  meno di due lustri, ma lui non lo sapeva. Don Erminio si era dimenticato di dirlo dal pulpito, che il millecinquecento era un anno speciale, se n’era dimenticato per non far commettere sciocchezze ai suoi parrocchiani, che aveva più bisogno lui di quei piccoli donativi la domenica piuttosto che il papa nelle sue dorate alcove. E quindi Vannino non lo sapeva, né la mamma Maria perché il pavimento e i banchi e l’altare della chiesa non parlavano, non ne erano informate le vicine che pure avevano sempre notizia di tutto, e neanche Messer Ernesto, che se lo avesse appreso gliel’avrebbe spiegato subito a Vannino, così come gli aveva insegnato la sua arte e il suo mestiere.
Un mestiere lo conosco, pensò Vannino col suo fagotto in spalla e i dieci cofanetti affidatigli da Messer Ernesto, con un lavoro onesto in una grande città ci si può guadagnare il pane, dedusse senza sapere se ci fosse e dove fosse una città e un lavoro onesto. Dell’esistenza delle città, ma non di lavori onesti, lui ne aveva solo sentito parlare da un forestiero a cavallo che si fermò una sera in una locanda del suo paese e dopo cena tirò fuori un mazzo di carte colorate e tutti gli si addossarono intorno. Vannino non riusciva a vedere perché era rimasto indietro ed erano tutti davanti a lui e più alti di lui, ascoltava soltanto e sentiva di re, bastoni, fanti, coppe, donne e denari e lui conosceva solo i bastoni, pensò, e provò a immaginarsi i re dalle parole magiche che uscivano dalla bocca del forestiero. Per lui il re fino allora era Don Erminio. Le donne le scoprì dopo, ma erano diverse da quelle delle carte, più muscolose, senza gioielli, senza corona. Come sua madre che lavava i panni e la chiesa e le sue vicine, solo un po’ più giovani, che badavano al forno. Ma mentre rievocava nella sua testa questi ricordi, sentì dei cavalli e delle voci e non ebbe neanche il tempo di girarsi che si vide superato da un carro, e sopra il carro c’erano delle persone, e fra queste persone una giovane donna che disse di fermarsi. Si presentò, si chiamava Giulia, e si stava recando dal cardinale, a Roma. Gli offrirono un passaggio ma non per gentilezza, c’erano da dividere i costi del viaggio e Vannino accettò per stanchezza di farsi portare per due ducati al primo ostello sulla strada. Ostelli non ce n’erano e il prezzo del passaggio saliva, Vannino dunque scese lo stesso e riprese sul far della sera la strada polverosa salutando Giulia, ricambiato, con un cenno della mano. Vide un edificio nella penombra e lo raggiunse accelerando il passo, ma nessuno rispose al suo bussare. Bussando un po’ più forte si accorse che il portone era aperto ed entrò, sentendo nella buia umidità dei canti cupi. Si sedette ed aspettò, la notte era scura e fredda e si convinse che quello era il posto giusto per dormire. Depose il fagotto ai piedi del letto e una pesante cassetta in tronco di faggio, che aveva con fatica portato fin là, sul robusto tavolo al centro dello stanzone. Pensò a ciò che c’era dentro e al lavoro che aveva fatto col suo padrone. Solo quello aveva in dote, la fiducia di Messer Ernesto. I cofanetti degli oli santi erano finalmente pronti, pensò Vannino stanco e soddisfatto su quel letto improvvisato. Tre boccette di argento cesellato per tre unguenti benedetti. Il primo conteneva il sacro crisma per battezzati, cresimati, vescovi e sacerdoti, per consacrarli a Cristo fra balsami e profumi. Il secondo, l’olio dei catecumeni tonico e corroborante per chi si prepara ai sacramenti, conferendo il vigore per superare il male. Il terzo era l’olio degli infermi, che applicato sulle ferite dava la forza per affrontare e superare la malattia. Ho in mano un grande potere, pensò Vannino sotto le palpebre, la cura contro il male. Ma devo consegnarla - rimuginò fra la veglia e il sonno - a chi non saprebbe come usarla, lasciandola dimenticare nei nodosi cassetti della sacrestia. E poi crollò, addormentandosi su quel giaciglio di legno che sembrava esser stato messo lì apposta da qualcuno che attendeva il suo arrivo. Si svegliò poco dopo, infreddolito, e prese per coprirsi uno dei lunghi vestiti appesi alla parete, non distinguendone nell’oscurità colore e foggia. Ma gli teneva abbastanza caldo da non fargli pensare di dirimere il dubbio, e ritornò al suo riposo.
Poco dopo l’alba, stropicciandosi gli occhi, andò ad aprire a qualcuno che aveva timidamente assestato dei colpi alla porta. “Buongiorno frate” gli disse l’uomo “è forse qui che vendete la cura contro il male?”.
Vannino esitò, ma capì nel successivo istante. Aveva straparlato con Giulia sul carro e la ragazza era socievole, ed ecco che la voce si era sparsa. Qualcuno aveva già intuito, ancor prima di lui, che prevenire il male su questa terra fosse meglio che curarlo in quell’aldilà. E se costasse meno di due anni di purgatorio, pensò Vannino, la gente in cerca dell’olio profumato aumenterà.
“Avete trovato il posto giusto”, disse Vannino dentro il saio, “se mi consente solo un momento, messere” gli fece, riverente, ostentando gran talento per il nuovo mestiere.

Porse al viandante il prezioso oggetto per cento ducati, sistemò gli altri nove vasetti nel suo arricchito bagaglio e si dileguò, lasciando la cassetta vuota in segno di ringraziamento per l’ospitalità.
Chiese di Roma, quale fosse la strada, perché la bella Giulia avrebbe di certo mandato altri polli indietro a cercare il novello frate che vendeva il divino intruglio. Si convinse di ciò, senza immaginare che non era l’amica a mandare la gente, ma la credulità popolare. Nel luogo sacro dove aveva dormito lo stavano ancora aspettando, lui e soprattutto i cofanetti d’argento preparati dal bravo e affidabile artigiano. Il tempo di un amen, ma senza preghiera, e vendette con modi brillanti gli altri nove cofanetti oleosi promettendo sempre più grandi meraviglie. E i cento ducati, prima di sera, divennero mille.
Con la cifra promessa avrebbe potuto rientrare a casa sollecito e ricco, a cesellare altro argento per nuove fortune. Ma erano venuti meno i santissimi scrigni, e con loro la fiducia di Messer Ernesto, perché sarebbe giunta in poco tempo anche al suo paese la voce che il balsamo e l’olio erano divenuti pregiati, e i loro contenitori ancor di più. Ma per altri scopi. Decise allora di proseguire la via battuta da tutta quella gente di ogni specie che come Giulia andava a Roma, a portare coppe, denari e spade per quel re della chiesa che non faceva dei poveri i prìncipi del regno di Gesù. Ebbe un moto nel petto, un impulso profondo, che diventò una sensazione sgradevole, un senso di colpa, un presentimento. Continuò. Aveva perso la sua dimora ma aveva trovato una meta: raggiungere Roma, e Giulia, che andava dal cardinale.

Entrò nella città di Roma coi suoi mille ducati seguendo lo stuolo dei fedeli viaggiatori, pensava finalmente alla mamma Maria che non aveva sue notizie, ai fratellini e alla piccola Cecca orgoglioso per la promessa rispettata, alle vicine, a Messer Ernesto che aveva tradito, al rosario di Don Erminio in oro e argento e granate che teneva in tasca mentre chiedeva ai parrocchiani di togliersi il pane di bocca. Pensava a Giulia e ai suoi rotondi occhi neri e ai suoi capelli luminosi e alle sue forme e alle sue guance di perla. Lei ha sparso la voce, si ripetè, e le era grato. Doveva ritrovarla. Ancora vestito da frate non ebbe il tempo di capire che la sua fortuna era già finita, quando sentì al suo orecchio “Giulia Farnese diceva il vero”, lui sussultò, “sei tu l’eretico degli oli santi”, ma che succede, che volete, chi vi manda? “Sei fortunato, Rodrigo in persona” risposero pronti quegli uomini ritti, “il cardinale capo dei grandi inquisitori”.
E un odore di bruciato si sentì provenire dal campo dei fiori.

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Francesco Demuro


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