27.8.12

BLACK OUT

   Dio, che sfacelo, Dio! Chi può averle fatto del male? Chi poteva avercela con lei al punto di…?
Sono le nove del mattino e sono in ufficio, stringo tra le mani la pagina di un quotidiano e i miei occhi scorrono velocissimi su questo articolo:
   “Efferato omicidio. Virginia N., 45enne single, trovata cadavere nel suo appartamento… scomparsa l’arma del delitto… ”.
   Non credo ai miei occhi, ho il cuore in gola, anche se a un tratto tutto è chiaro. Ieri non ho sentito Virginia, non la sento da due giorni, il telefono squillava a vuoto e non sapevo dove altro rintracciarla. Non abbiamo amici in comune: ci siamo sempre dovuti incontrare di nascosto e fuori città, da quando ci siamo conosciuti.
   Era una mattina di novembre, un sabato, la pioggia picchiava ostinata sulle imposte, Elsa era da sua madre e non avevo nemmeno l’impegno dell’ufficio: faccio il commercialista da vent’anni. Mi ero alzato ed ero uscito, deciso a godermi un po’ di pace e solitudine. Dopo aver passeggiato sotto un’acqua scrosciante, ero approdato in un bar del centro: è lì che ho visto Virginia per la prima volta. Faceva colazione al bancone accanto a me e abbiamo scambiato qualche parola.
   Così il sabato ho preso l’abitudine di tornare nello stesso bar e tra un caffè e l’altro…
   Ora bando alle ciance: come fare se gli inquirenti interrogano Rita? Lei sa. Rita è la sorella di Virginia, anche se personalmente non l’ho mai conosciuta. La polizia vorrà un alibi e giovedì Elsa non era in casa.
   E’ passato un anno dall’inizio della nostra storia: ci vedevamo quando riuscivo a sottrarmi ai controlli di Elsa. Merda! Avevo persino accarezzato l’idea di mandare all’aria il mio matrimonio. Ogni volta che accennavo il discorso a Elsa, lei, non faceva che minacciarmi che si sarebbe tolta la vita. Vivevo in un totale stato di stress! Ma lei, Virgy, la mia Virgy, era il mio dolcissimo rifugio.
   Dio! Come farò a vivere senza di lei?

   Ora mi accendo una sigaretta e mi concederò un drink. Vado a prendere la bottiglia dal mobile bar e me la porto sulla scrivania. Verso in un bicchiere e butto giù d’un fiato. Il gusto fruttato del Jack Daniel's mi si irradia sulla lingua e mi va dritto in testa. Mi sa che me ne faccio un altro.
   Mi alzo e mi pianto davanti alla vetrata con le braccia incrociate. La pioggia martella insistentemente sui vetri appannati, e tutto è pesante, bagnato, grigio, infangato. Me ne sto per mezz’ora buona in piedi, poi lo squillo del telefono come un’esplosione sconquassa la stanza.





   “Duilio, amore, che fine hai fatto? Sono già le due…”
   “Elsa, ci vediamo per cena, ho clienti.”
   Sentire la sua voce mi riporta alla realtà come una doccia di ghiaccio.
   Passo alcune ore seduto a bere, di tanto in tanto riafferro il giornale per accertarmi che si tratti davvero di lei, la mia Virgy… ma le fotografie sbattute in prima pagina non danno spazio a dubbi. Guardo l’orologio: è quasi ora di cena, mi do una rinfrescata alla bell’e meglio e mi incammino a casa.

   Eccomi davanti alla porta d’ingresso, faccio fatica a inserire la chiave nella toppa, ci provo una due tre volte finché non azzecco.
   Mi accoglie Elsa più zelante che mai. Ho solo voglia di continuare a stordirmi per rinviare il più possibile il momento in cui dovrò prendere atto della situazione. Elsa mi frastorna di domande incalzanti. Mi siedo al tavolo già imbandito. Un aroma di asparagi e di basilico tritato mi si incista nelle narici. Elsa mi serve e mi spara un bacio in piena bocca. Le sue labbra solitamente sensuali e morbide oggi sono rigide e fredde. Mi tocco le labbra con la destra, come a strappare questa sensazione insopportabile. Solo un paio di cucchiaiate di risotto, ma mi rimane in bocca un retrogusto dolciastro.
   “Che hai?” chiede Elsa, ricoprendomi di baci fitti e umidi “sei strano…”, aggiunge. Lo ripete troppe volte, come un mantra, e io sto zitto, con ancora il cucchiaio a mezz’asta. Mi scuote con le sue braccia esili ma energiche, facendo tinnire i braccialetti. Il cucchiaio vola in aria e precipita sul pavimento, poi mi si siede sulle ginocchia riprende a baciarmi e mi stringe in un abbraccio d’acciaio.
   “Ti amo Duilio…”
   “Anch’io, ti amo” dico distrattamente, e mi alzo col pretesto di pigliare una bottiglia di Prosecco e due flûte. Stappo la bottiglia e riempio due bicchieri. Ne offro uno a Elsa e come un automa dico:
   “A noi due.” Lei sorride ma la vedo sfumata sempre più sfumata, i contorni del suo viso indefiniti confusi.

   La mia attenzione ora è agganciata da un quadro appeso alla parete qui di fronte. E’ una riproduzione di Monet: c’è un paesaggio marino, delle barche. Seguito a fissarlo e mi isolo da tutto, dal soggiorno turchino, dalla luce alogena di una lampada a stelo puntata sul tavolo, dall’odore pungente del risotto, dal profumo sciropposo di mia moglie, evaporato svanito. L’acqua del porto adesso è schiumosa, ondeggia si dilata, le vele sono piene di vento, delle nuvole fluttuano lentamente sul cielo. Non riesco a spostare lo sguardo ormai calamitato da un paesaggio sfavillante, un mare che mi invita a tuffarmi. Il sole abbacinante mi picchia sul viso, ho la fronte gli occhi il corpo imperlati di sudore. All’improvviso mi do uno slancio e mi tuffo in quest’acqua limpida e fresca. Mi muovo con scioltezza, somiglio a un nuotatore olimpico, anche se tutto è così assurdo: nuotare non è mai stato il mio forte. Una forza portentosa mi spinge ad andare avanti e mi toglie qualsiasi bisogno. Sembro fatto di anfetamina, la stessa che assumevo da ragazzo prima degli esami e mi teneva sveglio tutta la notte, mi levava l’appetito e mi forniva una lucidità cristallina.

   A un tratto però la fatica si fa sentire: sono in down. Tutto il tragitto me lo sento addosso: sui muscoli di gambe braccia rattrappiti dal freddo, sul fiato cortissimo. Avvisto uno scoglio, una fortuna fottutissima. Mi ci aggrappo sopra, le pareti sono ripide e roventi ma riesco ad arrivare in cima.
   Deve essere l’alba. I colori sono tenui stinti il cielo rosato la luna iridescente lattiginosa. Da quanto non vedevo albeggiare? Di certo non è questo il momento per pensarci. La mia mente è vuota scarica inconsistente come dopo una lezione di meditazione durata a lungo mooolto a lungo. L’impressione che si tratti di un sogno si impossessa di me. Tasto tutto. La roccia tracima patelle grosse e appuntite, ne faccio una scorpacciata. Le stacco con un aggeggio che trovo su una spiaggetta luccicante. Il sapore aspro e raffinato mi intorpidisce, e incomincio a sonnecchiare.
   Mi sveglia di sobbalzo l’urlo stridulo secco dei gabbiani, e un fascio di luce sfolgorante mi ferisce gli occhi. Ho la mente riposata e neanche per un attimo mi chiedo dove sono: non lo so e la cosa non mi interessa. Mi viene voglia di riprendere la mia nuotata essendo di nuovo sostenuto da quella forza poderosa. Sguazzo in profondità tenendo gli occhi aperti e vedo tutto il paesaggio sottostante con perfetto nitore. Palme gigantesche di coralli e madrepora, pesci multicolor guizzano velocissimi, mi pizzicano gli arti la schiena la pancia. Assisto alla melodia prodotta da una coppia di balene che flirtano facendo mille acrobazie.
   Riaffioro e mentre riprendo fiato, una grossa sfera insanguinata rasenta l’orizzonte, e un qualcosa di simile a un goffo balenottero nero lambisce la superficie del mare. Man mano che le mie bracciate si fanno più rapide le sue dimensioni aumentano.

   Eccomi davanti a un piccolo aereo galleggiante.
   Decido di arrampicarmi in plancia. La torretta non è sommersa e mi calo a bordo attraverso un portello. Ho giusto il tempo di farlo che sento qualcuno chiamarmi:
   “Ehi tu!”. Penso si tratti della vedetta. La voce è talmente vaga e indistinta che credo di essermela immaginata.
   Un forte odore di nafta mi si ficca nel palato e un freddo boia mi fa battere i denti. Mi muovo a stento tra tubi valvole e motori. Inciampo su una lampada a pile che ghermisco e punto sul pavimento. Il buio pesto si tramuta in penombra e i rumori sono attutiti: un russare sordo proviene dalle cuccette. Mi avventuro in un andito strettissimo. Tendine bianche ai lati. Ne sollevo una con cautela. Alcuni lettini su cui uomini abbigliati con tute blu sono immersi nel sonno. Dall’odore di sentina riesco a raggiungere un microscopico cesso con un wc e un lavandino. Me ne servo. Quando esco, mi metto a camminare per uno striminzito corridoio che sbuca in un cucinino imbrattato di sugo e avanzi di pizza. Ne metto subito qualche pezzo in bocca e anche se è gelida e sa di gomma, me la divoro, poi mi siedo sulle panche di un’altra stanzetta con al centro un tavolo. Sul tavolo carte da gioco, pedine e scacchi. Agguanto le carte e le annuso. Sono impregnate di fumo di sigarette. Ne trovo parecchi pacchetti abbandonati non ho da scegliere che la marca. Mi accendo una Marlboro rossa ma alla prima boccata prendo a tossicchiare. E tossisco per minuti socchiudendo gli occhi finché una mano robusta mi preme sulla spalla.
   “Insomma, chi è lei?”
   Chi sono, io? Bella domanda…
   La prima cosa che vedo sono degli stivaletti in pelle impermeabile ripiegati sulla caviglia. Sollevo con lentezza gli occhi: mi si staglia davanti un uomo imponente dal viso stretto e lungo. Indossa una tuta e una giacca con sul davanti lo stemma dei sommergibilisti. Mi chiedo: che vuole questo da me? Ma taccio, non vorrei offenderlo.
   Dalla mia espressione stolida mi crede inoffensivo, perché il suo tono si fa meno duro.
   “Com’è arrivato qui?”
   “A nuoto ci sono arrivato” rispondo convinto. Almeno su questo nessun equivoco: sono grondante. E la mia voce ha un timbro più basso del solito.
   Mi domanda di nuovo il mio nome e vorrei poterglielo dire, se solo lo sapessi.
   Mentre parliamo arrivano due naviganti, poi ancora altri, finché non si crea un capannello. Sembro una bestia rara, e probabilmente lo sono. Che ci faccio, io, in un sommergibile?
   Mi offrono cibo in abbondanza birra sigarette. Tengono le salsicce appese ai tubi del soffitto, basso angusto. Mangio e bevo beatamente. Sembro capitato in un Eldorado avvolto di fumo.
   Poi crollo con la testa sul tavolo e il comandante mi accompagna alle cuccette.
   Prima di lasciarmi mi dice:
   “Ci stiamo preparando per un’immersione.” Annuisco mentre sprofondo in un lettuccio da cui un pezzo di gambe resta fuori.
   L’indomani i vapori della cucina mi svegliano soavemente. Mi accorgo che anche io indosso una tuta blu. Mi stiracchio e mi alzo. Mentre cammino seguendo un’appetitosa fragranza di pesce, attacco la faccia a un oblò: c’è un buio spesso fitto livido.
   Ora sono nel cucinotto e ai fornelli c’è una donna. Avverte i miei passi goffi pesanti e si gira di scatto spostando la sua chioma vaporosa.
   “Duilio!”, esclama. Fa un balzo verso di me e mi si tuffa letteralmente addosso.
   Rimango lì inerte, mi faccio abbracciare. La sento calda e vibrante, quindi si allontana brandisce un pentolino, versa l’acqua in una tazza di latta, mi offre un tè bollente pieno di limone.


   Ed ecco il passato irrompere nel presente! Mi sento trasportato in quella camera semibuia… un raggio di sole filtra attraverso le tende schiuse, il profumo del tè al limone mi stagna nella cavità del naso, sento il fischio lontano del treno, intravedo le palme accarezzate dal vento, percepisco la consistenza di una camicetta di seta...
   In quel momento fa il suo ingresso il comandante.
   Mi dà una pacca sulla spalla.
   “Black out superato?” si informa, lanciando un’occhiata alla donna “si dice che il riposo sia un’ottima cura.”
   Lei mi accarezza una guancia, proprio come…
   “Tu…”. La mia voce viene fuori atona. Lei sorride, con le mani si raccoglie i capelli sulla nuca e scorgo sul suo collo un segno bluastro che lo attraversa da parte a parte. Ci passo i polpastrelli sopra, avverto un lieve gonfiore. Lei si fa subito seria, mi fa sedere e dopo un istante denso cupo pesante, parla a raffica.
    “Parlavo con Rita al telefono quando lei ha suonato il campanello, dicendo che voleva parlarmi… Rita mi aveva avvertita di stare in guardia, invece io… io… ho pensato che fosse arrivato il momento di chiarirsi una volta per tutte. E poi be’… il resto l’avrai saputo dai giornali… ma c’è una prova che la inchioda Duilio…”.
   Di colpo non vedo e non sento più nulla, quella voce così familiare, quegli occhi nerissimi e scintillanti, quell’aroma deciso e inconfondibile di cannella… ma poi ecco insinuarsi sovrapporsi altri suoni, quello della televisione, della sua voce lacerante, delle sue mani che mi schiaffeggiano, di nuovo l’odore di quei fottutissimi asparagi.
   “Ehi, amore!” strepita adesso mentre mi butta addosso dell’acqua.
   Sono fradicio, ho le palpebre aperte, i miei occhi fissano ancora quel quadro. E il paesaggio è tornato immobile statico morto, mi alzo e incollo la faccia alla tela. Intanto Elsa non mi molla, mi urla di parlarle e allora l’accontento tornando completamente vigile.
   “Sei stata a trovare qualcuno in questi giorni?” l’aggredisco.
   “No, io… direi di no, a parte mia madre…”
   “E dimmi, dimmi, cos’hai fatto del tirante della tenda?”
   “Quale tenda?”. Le sue pupille si spalancano occupando l’iride.
   “Il tirante con cui hai strangolato Virginia!” urlo fuori di me.
   Elsa è finalmente in trappola.
   “Chi è Virginia?” chiede con gli occhi sbarrati.
   Quindi caccio le mani nel borsello alla ricerca del pacchetto di sigarette, non lo trovo, tasto sulla giacca, e ancora niente, palpo nelle tasche dei pantaloni, infilo la mano fino in fondo e… ma che diavolo… sotto le mie dita un laccio… è appiccicoso lo estraggo: è di un color canapa macchiato di rosso.
   “Duilio ma…” dice Elsa con voce piana sgomenta.
   “Io…” dico soltanto continuando a far ruotare sulle dita il tessuto intrecciato.
   Ecco che rivedo davanti agli occhi una scena raccapricciante… sono io quello… entro in casa di Virginia, mi sono scolato due o tre Jack, lei è fuori di sé vuole spifferare tutto a Elsa le dico che lascerò mia moglie… lei non ci crede più… mentre mi volta le spalle strappo la cordicella di una tenda, gliela giro attorno al collo e stringo, stringo finche non fiata più. Un rivolo di sangue le cola dalla bocca… sono disperato non so più che fare… temporeggio… i miei occhi cadono su Virginia riversa sul letto. Devo allontanarmi togliermi di qua. Sto per scoppiare il cuore mi percuote le tempie… decido infine di mettermi in tasca il laccio su cui si è depositato il suo sangue e il mio maledettissimo Dna.
   È tardi, fuori è già scuro, i lampioni gettano una luce soffusa sul viale, gatti randagi setacciano le buste dell'immondizia. Monto in auto e volo nel mio appartamento.
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Sembro posseduto, confesso tutto con voce gracchiante di fronte allo sguardo scioccato attonito di mia moglie.
   Lo squillo del telefono echeggia violento nella stanza.
   Elsa con una mano mi fa cenno di non muovermi mentre alza il ricevitore.
   “Certo, ispettore, può venire a parlare con mio marito…” dice calma fredda pacata.
   Appena chiude la conversazione mi dice:
   “Tu quella sera eri con me.”
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Laura Niolu



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