27.8.12

IL BOSCO DELLA MEMORIA

     L’uomo se ne stava li, sdraiato sul terreno a imitazione dell’uomo vitruviano,
mancava il suo doppio per rendere la figura perfetta, guardava il cielo come se fosse lo schermo di un cinema, poco distante da lui, una bottiglia di whisky, anch’essa sdraiata sul terreno, ma ormai priva della sua essenza. Nell’aria un odore di bruciato a ricordare la colpa. Il fumo di ciò che aveva deciso di occultare, si librava nell’aria seguendo la danza della menzogna. Gli alberi, a fare da testimoni della resa umana, seguivano il percorso dello sguardo dell’uomo, con i rami protesi come braccia verso il cielo, quasi a implorare aiuto in silenzio. Le immagini nella sua mente si susseguivano con un incedere doloroso come lo era stata quella giornata. Era accaduto tutto nello stesso giorno. Lo stesso maledetto giorno a fare da cornice al lutto estremo.
      Era una giornata come tante, un’ora di corsa nel parco della lussuosa villa dove abitava con la moglie, colazione abbondante e poi al lavoro.
Alfredo Turci era tornato in commissariato dopo la pausa pranzo, una mattinata tranquilla quella, ma un insistente mal di testa, lo seguiva come un’ombra dalla notte in cui si era schiantato contro un muretto a secco. Erano da poco passate le tre di pomeriggio, quando l’ispettore Carli gli venne incontro affannato.
«Commissà, venga presto, in America sta succedendo un casino!»
«Si calmi Giorgio, che sarà mai successo di così grave…».
Lo sguardo di Alfredo venne catturato dalle immagini che scorrevano dal televisore, non poteva crederci, vedeva le twin Towers di New York avvolte dal fumo, le vedeva bruciare e poi crollare, vedeva due aerei che in successione attaccavano le Torri gemelle, queste, erano le immagini che proponeva il video. Alfredo preso dall’ansia, non riusciva ad ascoltare le notizie del cronista, le gambe sembravano non reggere il peso del suo corpo, si sedette. Il cellulare vibrò sotto la tasca della sua giacca.
«Amore hai sentito la notizia? Oddio sono crollate! Bisogna chiamare Andrea…» La moglie del commissario non riuscì a finire la frase.
 «Rebecca ho appena visto…  Proverò a contattarlo. Senti ti richiamo appena so qualcosa. Ok?» Chiuse la telefonata con la paura che gli tormentava il cuore.
«Commissà ma suo fratello lavora in una delle torri?» «Si Carli, nella prima che è crollata.»
«Cazz … che sfiga!» «Eh già. Se fosse rimasto qua invece di andare a fare l’americano…» Sospirò e con le mani che gli tremavano compose più volte il numero del fratello, ma niente, non rispondeva. Fece telefonate a chiunque poteva essergli utile per sapere qualcosa di Andrea, tutto vano, era troppo presto per avere notizie. Rebecca continuava a telefonare al povero Alfredo, come presa da un tic che la costringeva a fare il suo numero in continuazione. Alla fine lui le intimò di smetterla. «Becca piantala con tutte queste telefonate! Non oggi, per la miseria! Lascia la linea libera.» Chiuse la comunicazione con l’istinto di lanciare il telefono dalla finestra, pur di non sentirla più. In quei momenti tragici la sua mente era occupata dal pensiero del fratello, erano molto uniti, avevano un rapporto particolare, nell’infanzia dipendevano l’uno dall’altro quasi a formare un'unica persona, in simbiosi. Ora erano adulti e vivevano ciascuno la propria vita, ma la fuga di Andrea a New York, aveva fatto sentire Alfredo in colpa. Andrea dal canto suo, era stanco di sentirsi sempre il secondo e seppur a fatica, prese la decisione di accettare quel lavoro che lo avrebbe portato lontano da ciò a cui teneva di più. In commissariato c’era il caos, telefoni che squillavano in continuazione e un vociare diffuso. Alfredo aveva bisogno di silenzio, decise di chiudersi in ufficio e mentre vi si dirigeva, il suo sguardo fu catturato da una busta con la scritta: “Nastro omicidio Contini”, la prese e tra la confusione la portò con sé. Si sedette dietro la scrivania, poggiò le mani tra i capelli e pianse, senza fare rumore, le sue lacrime bruciavano, per suo fratello e per Anna. Prese tra le mani tremanti il nastro e decise di visionarlo, voleva assolutamente sapere chi era il bastardo che aveva ucciso la sua amica di infanzia e di tutta una vita. Erano inseparabili, formavano le tre “A”: Alfredo, Anna, Andrea. “A” come Amicizia, ci tenevano a specificarlo, quando qualcuno seminava il dubbio che invece “A” stesse per Amore. Visualizzò Anna: i suoi lunghi capelli corvini, gli occhi azzurri e intriganti, il fisico statuario, aveva lavorato come modella con discreto successo, ma come si sa gli anni passano per tutti e, nonostante a quaranta anni fosse ancora una bellissima donna, le ragazzine tiravano di più, è la regola di quel mondo e lei lo sapeva, ma l’aveva presa male lo stesso, aveva iniziato a sniffare cocaina fino a prenderne la dipendenza, vizietto costoso insieme ai vestiti griffati, all’affitto da pagare e a tutto il resto, insomma, Anna si era abituata al lusso e il lusso costava, e da lì il passo fu breve, da occasionali prestazioni a ricchi signori, al diventare una puttana di lusso, ma lei preferiva utilizzare un sinonimo che sentiva più signorile: accompagnatrice. Ma la vera Anna, quella che conosceva Alfredo, era tutt’altra persona e soprattutto era innamorata di Alfredo, a scapito di Andrea, già, le cose non erano andate come ognuno di loro voleva, Andrea amava alla follia Anna, non ricambiato, vivendo all’ombra del fratello, Alfredo, nonostante amasse Anna rinunciò a lei per non vedere soffrire Andrea, ma fu fortunato a innamorarsi poi di Rebecca e a uscire da questo circolo vizioso. Un segreto però Alfredo lo nascondeva al fratello: il giorno del suo diciottesimo compleanno fece l’amore con Anna, erano in spiaggia e lui era brillo, non aveva resistito a quel richiamo insistente e si era abbandonato fra le sue braccia. Fu la prima e unica volta con lei. Non ne parlarono mai più. Il commissario si riscosse dai ricordi quando si accorse che la registrazione era partita, non si sentiva sicuro di voler vedere Anna morire, ma era importante per scoprire il suo assassino. La luce dei lampioni rischiarava la via insieme a una luna che guardava di traverso, la strada era stretta e i palazzi antichi le davano pregio a testimonianza dei fasti passati. La vide arrivare con un uomo mano nella mano, poi li vide discutere, tutto si svolgeva in un silenzio irreale, pareva di assistere alla prima di un film muto. Lui era di spalle, capelli neri corti, vestiva abiti sportivi, altezza poco più di un metro e ottanta. Lo vide estrarre una pistola e, mentre lei lo guardava, le puntò l’arma al petto e sparò una sola volta, Anna si accasciò, lui la prese fra le braccia, la strinse forte a sé e poi scappò via dal luogo del crimine, proprio in quel momento la telecamera inquadrò il volto dell’assassino. Il commissario saltò dalla sedia inorridito da ciò che aveva appena visto, fece tornare indietro il nastro, riguardò la scena svariate volte e si riconobbe nell’uomo che scappava. Aveva ucciso Anna. La sua mente girava impazzita in un vortice di pensieri e, mentre il commissario analizzava i fatti, l’uomo provava orrore per ciò che aveva fatto. Rivedeva con raccapriccio quelle immagini e non riusciva a dargli un senso logico, si chiedeva come aveva fatto a dimenticare di averla uccisa, freddata con un colpo di pistola. Amnesia, forse. Quella era la notte dell’incidente. Non ricordava il perché si trovasse in quella stradina di campagna, né cosa avesse fatto nelle ore precedenti. Ma se avesse ucciso Anna lo avrebbe ricordato. O no? Il dubbio lo torturava, ma quelle immagini parlavano chiaro, urlavano: “Hai ucciso Anna”. Negava l’evidenza delle immagini appena viste, mentre andava da un capo all’altro della stanza, con il sudore che si faceva largo tra i folti capelli neri ingelatinati e scendeva sul suo viso, attraversando le guance ora più scavate del solito, arrivando a inumidirgli la barba corta e perfettamente curata. Sentì le palpitazioni del suo cuore così veloci da togliergli il respiro, era scosso dai tremori, ormai schiavo della paura, della paura di perdere il controllo o di impazzire. Toccò la pistola, e per un attimo il pensiero gli attraversò la mente. Pensò a Rebecca e a suo fratello e questo lo fece desistere.
      L’uomo, ancora sdraiato, annegava nei suoi ricordi, il cielo diventava sempre più scuro e le stelle illuminavano il manto blu che lo sovrastava, quasi beffarde, infischiandosene di ciò che lui e molte altre persone avevano perso in quel giorno nato buio sin dall’alba. Le immagini continuavano il loro percorso nella sua mente ancora affamata di ricordi e chiarimenti.
      Alfredo, ancora nel suo ufficio, dopo aver cercato di placare l’attacco di panico che l’aveva colto, decise di tornare a casa. Il cellulare continuava a squillare, ma lui ignorava le insistenti telefonate della moglie.  «Giorgio vado a casa, non riesco a passare un altro minuto qui.»
«Commissà e quando mai! Vada vada. Niente notizie di Andrea, eh? Vedrà che si aggiusterà tutto» «Sì, si. A questo punto non so più cosa sperare.» Se ne andò via borbottando parole che l’ispettore non poteva capire. A casa l’aspettava Rebecca, era nella sala da pranzo, seduta in una delle costose sedie scultura che decoravano la stanza insieme al tavolo. Alfredo non capiva perché spendere tanti soldi per delle sedie, belle si, ma dannatamente scomode. Rebecca aveva fatto il suo acquisto in un’asta, aggiudicandosi queste antiche opere d’arte in pregiato palissandro. Spendendo una fortuna. Ma in fondo il danaro era l’ultima delle preoccupazioni di Rebecca, lei amava l’arte e viveva d’arte, al punto di curare anche il suo aspetto, come se fosse un’opera d’arte inventata ogni giorno da un artista diverso, ogni minimo dettaglio era curato con la pignoleria di un’estèta. Ora si sentiva agitata, era passato un anno da quando aveva perso i suoi amati genitori in un incidente aereo, da allora, era diventata apprensiva con il marito, componeva il suo numero telefonico, con l’ossessione di chi ha il presagio che sta per perdere quanto di più caro gli è rimasto su questa terra. Lo chiamava in continuazione, lui rispondeva per rassicurarla, ma la cosa stava diventando pesante e Alfredo non sapeva quanto ancora avrebbe retto. La notizia di Andrea l’aveva buttata nello sconforto, se ne stava lì, seduta in silenzio senza neanche muovere un muscolo, dopo aver tentato inutilmente di contattare il marito. Sentì il rumore della serratura, aspettò che Alfredo la raggiungesse nella sala, seduta composta, i rossi capelli raccolti in uno chignon talmente stretto, da tirarle la pelle del viso donandole qualche anno in meno dei suoi trentacinque. Sembrava una bambola di porcellana con la sua carnagione bianchissima, che proteggeva ossessivamente dal sole. Lo osservò in attesa, lui si sedette al solito posto, a capotavola, in silenzio.
«Notizie di Andrea?»  «No.»
«Lo so che non hai voglia di parlarne, ti capisco, ci sono passata anch’io, lo sai, ma dovresti sforzarti lo stesso, potrebbe non essergli accaduto niente… Non voglio farti illusioni, ma un po’ di positività …»
Alfredo sentiva la voce della moglie a tratti, poi ovattata, sino a non udirla più, la sua vista era attratta dall’affresco che aveva davanti a sé, quella parete semicircolare raffigurava il regalo che Rebecca gli aveva fatto al suo quarantesimo compleanno, cinque mesi prima, era stata una sorpresa, se lo aveva trovato lì al ritorno da un viaggio. Raffigurava il bosco della sua infanzia, si sentì cullare dalle emozioni che questo gli trasmetteva, si lasciò avvolgere da quella moltitudine di verdi, marroni, ocra e da tutti i colori della natura che con giochi di luci e ombre gli si aprivano in un abbraccio benefico, quasi materno. Si rivide bambino, mentre correva con Andrea, sentiva la voce di sua madre che li chiamava, l’unica che riusciva a distinguerli, erano gemelli monozigoti, praticamente identici, e grazie a questo, spesso si erano scambiati i ruoli per togliersi da qualche impiccio, o per puro divertimento. Questo pensiero girò nella sua testa sino a torturarlo, poi si accese una luce e tutto gli fu più chiaro: ma certo, non era stato lui a uccidere Anna. Suo fratello era in città il giorno dell’omicidio, era suo ospite e come al solito aveva preso in prestito i suoi vestiti. Era partito il giorno dopo. La loro somiglianza stavolta aveva ingannato anche lui. Per un attimo si sentì sollevato, subito dopo in colpa. Perché l’aveva uccisa? L’amava, forse era proprio questo il movente, forse l’ennesimo rifiuto di lei… i suoi pensieri vagavano con il sottofondo della voce della moglie, che come un ronzio continuava il suo volo solitario. Fu il suono del telefono a farlo sobbalzare.
«Alfredo rispondi, tesoro potrebbe essere Andrea, rispondi, ma che fai sei incantato?»
Alfredo era immobile, incapace di prendere in mano quell’oggetto che gli avrebbe aperto una nuova realtà, che in ogni caso lui vedeva difficile.
«Ma insomma! Che ti prende? Rispondo io, ho capito non ce la fai...» Rebecca allungò la sua mano, le lunghe e esili dita dalle unghie di un rosso uguale a quello delle sue labbra, si mostrarono nell’atto di prendere il telefonino, quando fulminea la possente mano del marito agguantò l’oggetto conteso.
«Non ti azzardare! Rispondo io.»
Rebecca ci rimase male, non capiva l’atteggiamento del marito, e va bene la disperazione, ma non le aveva mai risposto di malo modo. Pensava.
«Pronto?» Disse Alfredo con voce bassa e roca.
Da molto lontano, rispose una voce dall’accento tipicamente newyorkese, che lo informò che purtroppo, il signor Andrea Turci si trovava all’interno della torre nel momento in cui era crollata. In quell’istante, crollarono tutte le speranze di Alfredo, una parte di lui era morta, non sapeva se essere sollevato, oppure disperato. Aveva bisogno di respirare. Doveva uscire immediatamente.
«Allora? Chi era?» Chiese Rebecca trattenendo il respiro.
«No niente, niente di importante. Devo tornare in commissariato. Non aspettarmi sveglia, farò tardi.» Le diede un bacio affettuoso sulla fronte, tastò il nastro che aveva nella tasca della giacca e andò via.
      L’uomo continuava il suo viaggio fatto di ricordi, sempre sdraiato nella terra ormai umida del bosco. Non riusciva a immaginare quale sarebbe stato il peso delle sue azioni. Gli sarebbe piaciuto essere risucchiato da quell’immenso blu illuminato da quelle piccole luci, che da bambino credeva fossero gli occhi degli angeli, che lo rassicuravano e lo aiutavano a dormire sereno.
      Il commissario si avviò in macchina verso l’unico posto che gli pareva più appropriato per compiere ciò, che al momento gli sembrava più giusto, ammesso che in tutta questa storia ci fosse qualcosa di giusto. Ci volle poco meno di un ‘ora per arrivare al bosco, quello reale, quello che era stato teatro dei momenti più belli della sua vita, quando la vita non era un fardello così pesante. Posteggiò sulla strada e si incamminò lungo il sentiero costeggiato dai faggi, verso l’interno. La sua memoria evocava i ricordi imprigionati nella sua infanzia: i colori, gli echi, gli odori, i fruscii e i canti degli uccelli.
S’incamminò deciso verso la “roccia dei desideri”, così l’avevano battezzata lui e Andrea, fece tutto in fretta, per non avere ripensamenti, per non dare modo alla sua coscienza di manifestare il suo disappunto. Poggiò il nastro sulla roccia, l’aria era ferma, non un alito di vento, meglio così pensò, mentre irrorava, con ciò che restava dell’whisky delle grandi occasioni, la prova del reato, prima di buttarci sopra il cerino acceso. Ricordò con molta attenzione le immagini che piano piano sparivano in mezzo alle fiamme. Il fumo gli riempì i polmoni costringendolo ad allontanarsi, si buttò per terra piangendo come un bambino, urlando e lamentandosi come un animale ferito, alla fine, stremato, si lasciò andare sulla terra a braccia aperte e gambe divaricate.
      Dopo un periodo di tempo che gli parve lungo quanto un giorno, percepì lo scricchiolio delle foglie calpestate, poi il rumore dei passi, ma non ci fece caso. Si riscosse quando sentì quella voce familiare.
«Alfredo ma che combini sdraiato lì? Non sei più un bambino.»
Alfredo guardò l’uomo di fronte a lui, e pensò che il dolore lo stava facendo uscire di senno, non era possibile. Suo fratello era morto.
«Andrea credevo fossi morto…» Disse alzandosi, poi si avvicinò a lui per toccarlo.
«Beh, mi dispiace per te, ma ti dovrai specchiare in me ancora a lungo.» Affermò Andrea con una risata, abbracciando il fratello
«Come hai fatto a trovarmi?»
«Elementare commissario. Proprio a me lo vieni a chiedere, eh? Quando la Rebecca piangente mi ha detto che le avevi mentito, dicendole che andavi in questura, ho capito che c’era un solo posto dove potevo trovarti. Ed eccomi qua. Vivo.»
«Mi avevano detto che eri all’interno della torre, quando è crollata, e invece… che ci fai qui?»
«Sono arrivato questo pomeriggio. Sono scappato. Sai ultimamente è la cosa che mi riesce meglio. Poi dopo quello che è successo ad Anna… Beh non ce l’ho fatta a stare in quell’ambiente così estraneo, volevo tornare qui e ricominciare tutto da capo.»
«So tutto.» Disse Alfredo guardando in faccia il fratello.
«Tutto cosa?» Chiese Andrea con aria innocente.
«Hai ucciso tu Anna. Ti ho visto.» Rispose Alfredo guardandolo negli occhi, per quanto la luce del cielo glielo permetteva.
«Cristo Santo! Stai dando di matto?» Andrea spinse il fratello facendogli quasi perdere l’equilibrio.
«Ho bruciato la registrazione nella quale ti ho visto mentre sparavi ad Anna. L’ho fatto perché credevo fossi  morto.» Il tono della voce andò via via aumentando volume e intensità.
«Tu sei folle! La notte che è stata uccisa Anna io ero a New York.» Ci fu un attimo di silenzio, poi Andrea realizzò ciò che aveva visto Alfredo. «Sei stato tu! Lurido bastardo! Volevi dare la colpa a me… Perché L’hai uccisa?» Urlò Andrea strattonando il fratello.
«Non sono stato io! » Più Alfredo negava, più Andrea lo riempiva di pugni. Violenza e negazione durarono ancora per un po’, sino a che Alfredo esplose ammettendo una verità che negava persino a se stesso.
«Sì, l’ho uccisa io! Va bene?» Sentire queste parole uscire dalla sua bocca, fu un duro colpo per Alfredo, la sua memoria gli si era offerta come un proiettile in pieno petto.
Andrea mollò la presa. Non sapeva cosa fare, gli rivolse l’unica domanda che gli venne in mente.
«Perché?» Il silenzio rubò loro la scena per un lungo attimo.
«Me lo ha chiesto lei. Mi ha implorato di farlo. Io non volevo. Te lo giuro io non volevo.»
«Tu sei fuori di testa se pensi che io ti creda. Perché una donna come Anna avrebbe dovuto chiedere a qualcuno di ucciderla? Lei amava la vita.» Andrea si appoggiò al tronco di un albero, quasi a volerne succhiare la forza.
«Era molto malata. Ormai le restava poco meno di un mese di vita. Non sopportava che il suo corpo venisse mangiato dalla malattia, una malattia che l’avrebbe distrutta fisicamente. Non aveva paura del dolore, ma di come sarebbe diventata. Non voleva che nessuno la vedesse in quelle condizioni. Voleva morire così com’era: bella. “In fondo”, mi disse ”Cosa vuoi che sia un buco nel petto, tanto quando sarò vestita, non lo vedrà nessuno.”
Era difficile per Andrea accettare la realtà, ma in fondo, era nello stile di Anna.
Le due A si sedettero appoggiando la schiena alla pietra dei desideri e in silenzio, aspettarono l’alba, immaginando di vedere la terza A volare verso un alfabeto sconosciuto.
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Giovanna Manca

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