27.8.12

LA CASA DEL CORSO

Abitavo in una vecchia casa della famiglia di mia madre,
in corso Vittorio Emanuele, nel centro storico di Sassari. Una casa particolare, anche bella e affascinante nel suo genere, grande e spaziosa, almeno nei ricordi di una bambina. Era costruita su due livelli, movimentata da scale, e con stanze enormi comunicanti tra loro, soffitti alti e volte a botte. La cosiddetta    “stanza buona” aveva pareti tappezzate con stoffe dai disegni rinascimentali in giallo oro, rifinite da bacchette dorate. Il pavimento in marmo amaranto, tipo veneziano, era sempre lucidissimo e pattini di lana ci accoglievano all’ingresso, per evitare, come diceva la mamma, quelle odiose strisciate delle scarpe di gomma. Ma la cosa più incantevole era la grande terrazza pensile, dotata di vasconi di pietra, decorati con bugne e faccine antropomorfe contenenti piante di ogni genere; un pergolato di gelsomino si arrampicava per tutta la lunghezza del cortile e dal mese di maggio in poi era tutto un rifiorire di profumatissime stelle bianche. Ho ancora impressa nella memoria la penetrante fragranza che si diffondeva nell’aria, nelle tiepide serate estive. Un tavolo rotondo in pietra era fissato in un angolo della terrazza e lì spesso consumavamo i pasti. Il pavimento era in pendenza e terminava con tre gradini che salivano in una specie di ballatoio di legno con vista sui tetti delle basse case di Sant’Apollinare e su un incredibile giardino di aranci. Ma la casa non finiva qui perché un’altra grande camera, la “stanza di fondo” o stanza degli ospiti accoglieva i vecchi mobili della nonna, consolle, letti in ferro battuto che sarebbero serviti ai nostri immancabili ospiti che si avvicendavano nelle lunghe estati sarde.
Ancora una volta è il profumo delle cose che mi sovviene e riporta a galla ricordi che sembravano assopiti. Il forte odore dei fichi secchi conservati con alloro, all’interno di candide federe di lino, i canestri rotondi dove venivano sistemati i ravioli di ricotta o le formaggelle appena fatte. Questa era una stanza “tutto fare”, era il mio rifugio preferito, lo spazio adatto per i giochi, bambole e passeggini per me, per mio fratello una enorme e contorta pista del trenino elettrico, a cui ogni natale si  aggiungeva un pezzo per arricchirne il percorso. 
“La stanza di fondo” si apriva ancora in una lavanderia e poi in una soffitta bassissima, ultima tappa per il gioco del “nascondino”.
La casa del Corso  esiste ancora, eredità lasciataci da mia madre, attualmente è divisa in due appartamenti, quello sulla scala a destra appartiene a me, quello sulla scala sinistra a mio fratello che lo ha trasformato in uno studio medico.
Devo confessare che da piccola mi vergognavo un po’ di vivere in quella zona vecchia della città antica, preferendo di gran lunga i palazzoni di periferia, simbolo dei tempi moderni.
Ora invece, come tutte le cose che si rimpiangono, in quanto legate all’infanzia, ho una forte nostalgia di quella casa e dei suoi abitanti. Il quartiere oggi è profondamente degradato, le abitazioni, dopo l’abbandono dei suoi originari proprietari, sono vecchie e cadenti; l’atmosfera ottocentesca di piccola nobiltà  di provincia, che si respirava nella zona, ha ceduto il passo alla presenza di una classe sociale eterogenea e multirazziale. C’ è qualche vecchia lapide che ricorda la nascita e la breve permanenza di personaggi legati alla storia della città, come Enrico Costa e la famiglia del notaio Masala, autore delle famose “gobbule”, nonché mio parente, in quanto bisnonno di mia madre. Questo vistoso trasferimento di persone, avvenuto per lo più negli anni ’70, ha fatto sì che il centro storico cambiasse identità. Oggi la zona è un variopinto scenario di tutte le razze, cinesi, indiani, pakistani, senegalesi hanno piantato lì le loro nuove radici, organizzando una rete sociale allargata alle varie etnie. Anche io ho ceduto al fascino dell’esotico e per un certo tempo ho affittato il mio appartamento ad una coppia di cinesi prima e pakistani dopo.,
Quando mi reco nella vecchia e smembrata casa, sempre e unicamente,  per risolvere seccanti problemi condominiali, provo una stretta al cuore, non è rimasto più niente della vecchia abitazione originaria, niente che mi convinca a tenere ancora questa proprietà, malgrado i consigli della mamma che diceva sempre “ Figli miei, meglio pentirsi di non vendere che di avere venduto”. Ma forse oggi l’IMU le avrebbe fatto cambiare idea. E proprio giorni fa io e mio fratello abbiamo dovuto fare un sopralluogo per verificare con un operaio una perdita d’acqua con conseguente macchia di umidità che proveniva dalla cantina.
La porta della cantina in questione si trova al piano terra dello stabile, al centro di due scale che portano agli appartamenti superiori, in tutto tre, uno per ogni piano. Mio zio, fratello di mia madre, abitava il secondo piano ed aveva in uso la cantina, che poi venne dimenticata e non più utilizzata per tutti questi anni. Non avevo un bel ricordo di quel locale, da piccola ci scendevo di rado,  terrorizzata dal buio e dalle ragnatele, ma soprattutto dai racconti leggendari che circolavano sulla presenza di una donnina  dagli occhi verdi. “Dove sei , donnina dagli occhi verdi, non abbiamo paura di te, fatti vedere” così dicevano, per farmi spaventare, i miei cugini, quando dovevamo recarci in cantina a prendere il vino o l’olio. Si vociferava anche di un certo tesoro “ Lu Siddaddu”  pare nascosto negli anfratti sotterranei, che la vecchina custodiva, fulminando con i suoi occhi verdi chiunque si avvicinasse. Aprimmo con curiosità e un po’ di tremore quella porta chiusa da tanto tempo, che immetteva in un andito buio e maleodorante. Nessuno spiraglio di luce proveniva dall’interno, provvisti di una pila notammo una scala in fondo che scendeva in un profondo e lungo cunicolo sotterraneo. Sembrava di essere in un girone infernale, le pareti nere trasudavano l’acqua che nel corso degli anni aveva scavato solchi e formato dragonaie. C’era un forte odore di muffa e puzza di morte. Chissà dove portava il passaggio, sopra  le nostre teste  sentivamo il rumore del passaggio delle macchine sul Corso, ma la fioca luce della pila non ci permetteva di andare oltre.
Ebbi un brivido di freddo e provai la netta sensazione di trovarmi in un luogo di morte. “Andiamo via, dissi a Sergio, anche lui inquieto ma curioso e affascinato allo stesso tempo.
Boccioni di vino, tini per la vendemmia, mucchi di legname ormai sbriciolato erano negli angoli degli anfratti, quando una valigia di cartone, di quelle che usavano un tempo i nostri immigrati, attirò la nostra attenzione. Ebbi un fremito di paura, erano almeno trent’anni che quella cantina era stata abbandonata e solo per caso avevo trovato tra le cose di mia madre, quella inconfondibile e lunga chiave che non poteva che appartenere alla vecchia porta in legno. “Che cosa facciamo” chiesi a Sergio, ormai terrorizzata, che cosa conterrà quella valigia?” Sergio non rispose, indeciso sul da farsi. Anche l’operaio che ci accompagnava rimase in silenzio, meravigliato del mondo sotterraneo appena scoperto. Il cunicolo continuava senz’altro, ma la luce della pila non era sufficiente per poterlo esplorare. Intanto la valigia era lì, in attesa di essere aperta, nessuno aveva il coraggio di toccarla. “La apro io” disse il signore che ci accompagnava vedendo la nostra titubanza. Si infilò  guanti e armeggiò con la serratura arrugginita, diede diversi colpi e fece scattare la molla. Uno scheletro quasi polverizzato e un teschio impressionante apparve ai nostri occhi; “ Aiuto”, gridammo tutti insieme facendo un balzo all’indietro; a chi potevano appartenere quei poveri resti senza sepoltura, rimasti decenni nascosti, quale storia avevano alle spalle.


     GLI STRANI INQUILINI DEL CORSO


La casa del corso venne lasciata dalla nostra famiglia negli anni ’70, invece continuarono ad abitarci la famiglia Perino, al terzo piano della scala sinistra e la famiglia di una certa Faustina e del fratello Riccardo nella misteriosa scala destra . La casa fu teatro proprio in quegli anni di storie strane e cruente, che in qualche modo potrebbero avere un legame con i resti della misteriosa valigia rinvenuta nella cantina. Con i Perino eravamo legati da una lunga e affettuosa amicizia, rinsaldata negli anni da rapporti di fede. Mia madre ne aveva cresimato due figli,mio padre venne scelto anche come testimone di nozze. “Comare Santina” era veramente una “ santa” donna, madre di ben sette figli, cinque maschi  e due femmine, che faticosamente aveva cresciuto in mezzo a varie difficoltà. Una figlia, in particolare, figlioccia di mia madre, era affetta da schizofrenia, e spesso veniva sedata nei momenti di maggiore agitazione.
Un giorno tentò di fare la cosiddetta “cravattina” a mio padre, cioè tentò di strozzarlo con la scusa di mettergli la cravatta, la reazione di babbo fu abbastanza pronta e dura tanto da metterle paura. Noi bambini evitavamo di incontrarla e facevamo sempre le scale di corsa.
Ma la famiglia più inquietante era quella che abitava al terzo piano della scala destra, buia e stretta con vecchi gradini di ardesia. Ci viveva Faustina, arcigna zitella, di età indecifrabile, e dallo sguardo reso ancora più truce dalle spesse lenti da vista. Una donna energica e isterica, poco amante dei bambini e ancora di più del fratello minorato Riccardo. “Riccardo cuor di leone” lo avevamo soprannominato, ironizzando appunto sul suo atteggiamento invece pauroso e rassegnato. Era un figlio “minore”, nato da una relazione segreta della madre ormai matura con un altro uomo.
Riccardo vestiva sempre allo stesso modo, estate e inverno, una giacca informe, sdrucita e incolore, una camicia a quadretti e un pantalone marrone largo e corto, ricco di macchie d’unto, in testa un bordino nero. Era inseparabile da un boccione di vino che teneva quasi abbracciato, lo incrociavo spesso nel portone e lui a testa bassa gorgogliava una specie di saluto, mai un sorriso neanche una parola. Mi faceva una gran pena e odiavo quella megera della sorella che lo maltrattava. A volte vincendo la paura, salivo nella scala proibita e spiavo dietro la porta i loro discorsi. Riccardo brontolava silenziosamente, mentre la sorella lo rimproverava e lo colpiva, umiliandolo in continuazione. Non si conosceva il motivo di quelle liti ma penso che lei morbosa lo tenesse segregato e gli rifiutasse soldi e uscite. Riccardo diventò sempre più nervoso, fino a quando un giorno, esasperato, in un impeto d’ira, uccise la sorella Faustina strangolandola. Dal giornale apprendemmo la terribile notizia che non ci lasciò in realtà del tutto sorpresi. Da quel momento non si seppe più niente del destino di Riccardo, se non che era stato internato in manicomio.


       L’IDENTITA’ SCONOSCIUTA

Il ritrovamento dello scheletro mi mise in uno stato di profonda inquietudine e fece venire a galla particolari di ricordi legati alla mia infanzia. Sensazioni strane, stralci di discorsi tenuti a bassa voce tra mia madre e comare Santina “Comà, stanotte ho sentito uno strano rumore provenire dal portone, quasi una specie di lamento”. “A proposito non ho più visto quella, deve essere tornata al suo paese”. “Quella” era una giovane servetta che lavorava al servizio di un vecchio avvocato nel palazzo di fronte al nostro. Improvvisamente la ricordai, bruna con occhi  profondi, i capelli tirati in una crocchia, una gonna nera, lunga e plissata e camicia bianca, abbigliamento tipico delle donne “dei paesi”. Non si sapeva niente sul suo conto, se non che veniva da un paesino del nuorese, era una presenza silenziosa e quasi fantasma, non credo che nessuno del nostro quartiere avesse mai scambiato una parola con lei. Mi venne alla mente improvvisamente un particolare legato a quella presenza, forse non riesco bene a percepire se quello a cui ho assistito fosse un sogno o invece realtà; una notte mi parve di vedere la sua figura scura  uscire dal portone della nostra casa. Mi ricordo che pensai “cosa ci fa, a quest’ora della notte in casa nostra?” Mi dimenticai subito di questo episodio e non ne parlai con nessuno. Passarono i giorni e i mesi, non vedemmo più la giovane serva e la dimenticammo. Ma chissà perché il ritrovamento di quei resti umani me la fece ricordare  all’improvviso. Decisi che il giorno dopo sarei andata a denunciare il fatto e mi sentii più tranquilla.



CRONACA DI UN DELITTO

Com’era facile da immaginare la notizia rimbalzò subito, prima nel quartiere e poi in  tutta la città. Anche i giornali locali parlarono del misterioso ritrovamento, si fecero mille ipotesi sull’origine di quello scheletro. La casa venne invasa dalle forze dell’ordine e la cantina venne sigillata per permettere di svolgere le indagini in modo più preciso e non contaminare la scena del crimine.
Si aggiunsero nuovi particolari al ritrovamento e cioè che le ossa in questione appartenevano ad una giovane donna, presumibilmente morta circa trenta-quaranta anni prima. Nella valigia vennero trovati anche uno scialle nero e un bastone del tipo di quelli usati dai non vedenti.
Io, Sergio e l’operaio, responsabili del ritrovamento e quindi della denuncia fummo interrogati per ore, ma all’epoca dei fatti sia io che Sergio non abitavamo più nella casa e gli altri inquilini erano ormai tutti morti compresi Faustina e Riccardo.
Il maresciallo che conduceva le indagini continuava a farmi domande, ero infatti l’unica che in qualche modo poteva ricostruire meglio la vita nello strano palazzo e dei suoi altrettanto strani abitanti. Si soffermò in particolare su quei inquietanti e misteriosi inquilini della scala destra.
Dissi tutto quello che ricordavo, comprese le sensazioni che avevo avvertito e altre fantasticherie di cui si mormorava.
Si, ecco, quel bastone che il poliziotto mi mostrava, l’avevo già visto. Era un bastone bianco, dal piede rivestito in ottone; improvvisamente mi sembrò di sentirne lo strano ticchettio, dapprima regolare, provenire dall’ingresso del portone e poi cadenzato, preciso, provenire dalla scala destra. Accompagnava i passi di una cieca che saliva le scale.
Si, il bastone, trovato vicino alla valigia, apparteneva a Faustina…..


“Mamma, sveglia, è tardi, dobbiamo andare” Stordita, aprii gli occhi, gli occhiali
 mi erano scivolati in grembo, in mezzo ai fogli del manoscritto, sparsi sul divano.
Una grande scatola di latta, contenente vecchie fotografie, stava per terra.
Ricordi sparpagliati, appartenenti alla mia famiglia, foto dei miei genitori giovanissimi, una, addirittura, credo unica, che li ritraeva il giorno del matrimonio, proprio nel cortile della casa del Corso. Poi il mio caro e vecchio nonno, i miei terribili cugini e i parenti tutti nel disordinato e appassionato scenario della nostra vita. Una foto in particolare però attirò la mia attenzione; ritraeva la mamma, Comare Santina, il nonno già anziano e me piccola nel terrazzo della casa, colti in un momento indaffarato della giornata. Non so chi l’avesse scattata, ma la foto mi incuriosì perché un lato di questa era stato accuratamente tagliato con una forbice .
Qualcuno, presente nella foto, era stato deliberatamente escluso dal gruppo.


“ Comà, quella donna non mi piace, cè qualcosa di strano nei suoi occhi, state attenta “

“ Poveretta, rispondeva mia madre, mi fa pena, è sola, senza famiglia, ha bisogno di lavorarare.




Ero troppo piccola per ricordare la giovane che evidentemente frequentava la nostra casa solo qualche volta e al mattino, quando io ero a scuola;
allora perché questa sensazione di mistero e sospetto aleggiava nella casa del Corso.
Che cosa aveva fatto perché tutti la evitassero. Certamente ci doveva essere qualcosa di inquietante nella sua storia.
Non si trovò mai traccia della sua esistenza se non quelle povere ossa nella valigia, niente che potesse farla ricordare e desse un nome a quei resti.
Ed adesso quella foto rotta, Perché, Chi si nascondeva dietro quella identità sconosciuta….



Mi ero addormentata… provai un senso di sollievo, mi dissi “E’ stato un sogno…” Forse !!!
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Maria Vittoria Piga

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