27.8.12

IL QUADRO DI VERMEER

Silvestra chiuse il portone d’ingresso e, dato un rapido sguardo alle buste consegnate dal portalettere, ne abbandonò alcune sul mobiletto all’ingresso,
 come non meritevoli di ulteriore attenzione, mentre altre trovarono posto sulla scrivania dello studiolo.
« I libri che aspettavamo,  due bollette,  una raccomandata e un estratto conto », disse rientrando nella sala da pranzo e rivolgendosi al marito che aveva lasciato pochi minuti prima. Con stupore si avvide che Gerolamo si era allontanato dal suo posto a tavola.
La stanza era attraversata dai raggi  del sole intenso del mezzogiorno appena trattenuti dalla tenda di leggera mussola, i mobili acquistavano un colore ambrato e i dipinti alle pareti parevano più vivi.
Gerolamo aveva spostato sgarbatamente di lato la sua sedia  e aveva portato via il quadro che poco prima aveva sistemato nella parete di fronte, perché potessero iniziare ad osservarlo in quel luogo di riguardo che avevano pensato di riservargli.
Silvestra valutò la posizione della sedia e lo spazio vuoto lasciato dal quadro come il risultato di un allontanamento impulsivo di Gerolamo dettato da quel febbrile nervosismo, da quell’incontrollabile allarme che lo accompagnavano in quel periodo. Il suono improvviso del campanello lo aveva forse indotto a pensare che qualcuno venisse a chiedergli conto di un qualche fatto o comportamento. Nella mattinata, aveva raccontato alla moglie, sguardi sospettosi e  malevoli gli erano stati dispensati senza risparmio e capannelli si erano improvvisamente formati a commentare chissà quali misfatti. Da tempo sapeva della tensione in cui il marito trascorreva le sue giornate al lavoro e, ormai, anche fuori. Dapprima, quando tutto aveva avuto inizio, avevano affrontato insieme l’ostilità che Gerolamo avvertiva e subiva,  l’apprensione  si scioglieva nel rifugio del reciproco sostegno e dei loro interessi comuni, ma poi la tensione si era fatta più forte e Gerolamo tentava di evitarle ogni ulteriore dispiacere. Ma nulla sfuggiva alla moglie del suo turbamento.
Dopo aver meccanicamente sistemato la sedia, Silvestra si diresse verso il laboratorio, una stanza  con grandi finestre che si apriva sul cortile, dove Gerolamo si dedicava al restauro di piccoli oggetti, quadri, mobili d’arredo.
Il quadro aveva ripreso il suo posto sul cavalletto e  la piccola poltrona che lo fronteggiava era vuota. Silvestra si guardò intorno, quasi in cerca di un indizio,quindi sedette. Ripercorreva con gli occhi ogni linea e ogni sfumatura del dipinto e ritornava agli avvenimenti che nelle ultime settimane avevano travolto Gerolamo e la loro vita.
Era accaduto un giorno qualunque durante una qualunque di quelle conversazioni davanti alla macchinetta del caffè. Gerolamo ricordava di aver detto qualcosa di non particolare rilevanza, una di quelle frasi buttate là, in uno scambio di parole consueto, e il viso del capoufficio Giorgio si era raggrinzito in una smorfia che pareva disgusto per un caffè troppo amaro, ma presto si precisò come di disprezzo: lo aveva guardato per qualche secondo e poi, schiacciato tra le dita il bicchierino di carta prima di gettarlo con rabbia nel cestino, gli aveva voltato le spalle. Schiacciato, cestinato, così si era sentito da allora perché l’evidente avversione del capo aveva sollecitato le sgarberie e l’animosità dei colleghi.
Egli trascorreva gran parte delle sue giornate nell’ ufficio affollato, un’infilata di box, di computer e di teste volte agli schermi; lavorava con competenza, sebbene quell’attività non rispondesse alle sue attitudini e alle sue aspirazioni, e  nascondeva il suo conflitto sotto un costante autocontrollo. Forse il suo conflitto era comunque evidente, forse qualche suo atteggiamento segnalava una crepa sulla quale si erano indirizzati gli atteggiamenti prevaricatori pronti a scavare in quell’incrinatura del suo animo per sgretolarne ogni sicurezza.  E più veniva umiliato dagli atti meditati o disattenti più vivo e tormentato si faceva in lui il desiderio di scusarsi. Il clima di emarginazione nell’ufficio ingigantiva infatti  la sua ansia e fu un crescendo di tensione dal mobbing quotidiano ad un’accusa non pronunciata, ma sapientemente agitata.
E in questo clima acquistò sempre più un ruolo consolatorio l’attenzione per l’arte e le ricerche tra botteghe e mercatini d’antiquariato. Silvestra ricordava bene quel giorno in cui Gerolamo aveva scoperto il quadro ad Arezzo.
Il mercato dell’ antiquariato presentava la più varia collezione di  suppellettili  di epoche diverse, comuni o rare: le bancarelle ospitavano libri, vasi, mobili, oggetti d’arredamento. Raccolte su ampie cartelle si potevano osservare stampe e incisioni popolari in grandi fogli. Non mancavano gli acquarelli e i disegni, a volte impolverati e spiegazzati, e i quadri, per lo più tele dipinte a olio, erano custoditi da cornici  riccamente intagliate color d’oro scuro o da semplici profili sagomati.
Il quadrante dell’orologio di  Felice da Fossato in Piazza Grande  batteva le dodici quando Gerolamo vide il quadro. Anch’egli, come molti frequentatori dei mercati, coltivava la speranza di trovare, tra quella straordinaria varietà di soggetti e di stili, il suo quadro: sconosciuto ai più, scomparso nel tempo e recuperato. Il sogno di ogni collezionista, di ogni investigatore dell’arte.
Il dipinto, di media grandezza, era ricoperto di polvere e racchiuso da una cornice tarlata. Non fu quindi un dettaglio evidente che attrasse Gerolamo, fu piuttosto un qualcosa di vago che fermò lo sguardo, destò il suo interesse e pose in moto la sua memoria. Chiamò Silvestra e insieme valutarono quella composizione così semplice e così ragionata, quella  scena in un ambiente chiuso che suscitava richiami ad una pittura lontana nel tempo. Avevano deciso di acquistarlo e il suo restauro fu un punto di svolta nella loro vita.
A casa, nel laboratorio, Gerolamo pose il dipinto sul grande tavolo, già ingombro di pennelli e vasetti e colori e piccoli attrezzi, e prese a guardarlo da diverse angolazioni. Ancora venne catturato dalla composizione, dalla luce che, entrando dalle finestre che si aprivano sulla destra, si indirizzava verso il centro dove appariva un pavimento con qualche riquadro di marmo chiaro e, sul pavimento, il lembo di un drappo. Una donna suonava una spinetta addossata alla parete di fronte e volgeva le spalle all’osservatore. Di fianco a lei un gentiluomo l’ascoltava suonare.
Era evidente che il quadro era stato varie volte restaurato e ritoccato. Gerolamo iniziò a levare delicatamente la polvere passando più volte sulla superficie un pennello leggero, quindi  prese a rimuovere il sudiciume che si era depositato tra grumi di colore. Queste due operazioni diedero agli oggetti una nuova evidenza, ma era necessario procedere ad una ripulitura accurata che riportasse all’origine  sia dei colori sia della composizione. Ed ecco che con infinita pazienza Gerolamo tamponò con un batuffolo di cotone imbevuto d’acqua saponata e qualche goccia d’alcool, quindi ripassò con un batuffolo umido, ma pulito, per assorbire ancora una volta lo sporco, asciugò l’intera superficie con della carta assorbente e infine levò ogni residuo della soluzione saponata con la trementina. La ripulitura richiese giorni di lavoro attento e fiducioso.
Si sentiva, Gerolamo, sempre più testimone e autore via via che il dipinto acquistava sotto le sue dita i colori originali, i particolari si definivano, la luce si diffondeva più chiara. Rivelava il suo linguaggio complesso e l’impronta di un grande artista.  Con gioia e timore insieme, credette di veder confermate quelle impressioni che aveva condiviso con Silvestra: gli sembrò di riconoscere l’arte di Vermeer. Un vero Vermeer. Il restauro aveva riportato  una composizione analoga a La lezione di musica con piccole differenze: i vetri colorati alle finestre, il quadro sulla parete, l’assenza di oggetti sulla tavola. Ma la luce, il colore erano di Vermeer. La luce dava vita ad ogni colore  nella sua più pura essenza e, insieme, la realtà raffigurata e l’idea del pittore creavano uno straordinario equilibrio. Lo spazio e il tempo erano fissati definitivamente dalla luce e resi immutabili.  La realtà, così ben rappresentata, manteneva la sua dimensione divenendo tuttavia metafisica.
Silvestra aveva condiviso l’aspettativa e la sorpresa che il quadro aveva regalato, aveva sentito salire in loro l’emozione della scoperta fino alla soglia della comprensione del messaggio più riposto. Ancora, mentre sedeva nella poltroncina davanti al cavalletto, non sapeva che Gerolamo aveva superato quella soglia, ma già intravedeva qualcosa di nuovo e famigliare insieme, un luccichio complice e devoto nello sguardo dell’uomo presso la spinetta.
Mentre attendeva che Silvestra leggesse i suoi pensieri nei lineamenti del gentiluomo  e nella scritta sulla spinetta, Gerolamo ripensava al momento in cui,dopo aver lasciato frettolosamente la sala da pranzo e aver sistemato il dipinto sul cavalletto che abitualmente lo ospitava nel laboratorio, si era seduto sulla vecchia poltrona  e tutto era accaduto.
  Il quadro sembrò sciogliersi in una nebbia argentata con leggere spirali che lo accolsero. Tra quegli oggetti che avevano preso sotto le sue dita una nuova vita si sentiva ora definitivamente protagonista. Egli aveva raggiunto il luogo della sua anima. Si era trovato avvolto nelle increspature del tempo, nella realtà dei sentimenti più tenaci, del sogno e della poesia e non poteva dire di se stesso se non che attendeva.
Immobile accanto alla spinetta si pose a guardare fuori da quella stanza che così bene conosceva: una stanza permeata dalla luce del sole, sul fondo la spinetta su cui spiccava il moto “L’amore perfetto è rivolto ad una sola persona”, la viola ai suoi piedi che avrebbe ripreso  il motivo suonato dalla spinetta, così come si sarebbero reciprocamente richiamati i sentimenti di Gerolamo e di Silvestra.
Gerolamo e Silvestra: due nomi accomunati da un’invenzione letteraria, certo non come Paolo e Francesca, ma protagonisti di un grande amore in una novella di Boccaccio. Questo li aveva uniti inizialmente per gioco negli scherzi dei compagni, sui banchi del liceo.
Nella sua stanza luminosa Gerolamo attendeva. Silvestra aveva guardato attentamente il dipinto mentre egli vi lavorava, ne aveva visto affiorare i dettagli e le sfumature più riposte, perciò sapeva che avrebbe letto sulla spinetta la scritta, fino a qualche minuto prima nascosta da una patina leggera di colore, e avrebbe capito. Lo avrebbe raggiunto con l’ andatura rapida e disarmonica dei suoi sedici anni. Gli avrebbe sorriso e, tenendo leggermente in morbide pieghe la sua veste di seta, si sarebbe seduta alla spinetta, davanti allo specchio che avrebbe così compreso nella sua cornice e restituito nella stanza la realtà libera da ogni impurità, oltre il tempo. Egli allora, finalmente al riparo da eventi angosciosi e sofferenze, avrebbe ricambiato il suo sorriso.
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Rita di Mattia 


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