27.8.12

UNA BOTTIGLIA DI DEMONI

“Difficile” ed “inquietante”. Sono gli unici due aggettivi che mi vengono in mente guardando il display del mio portatile.
E’ difficile iniziare a scrivere qualcosa che abbia un minimo di presa, non su un possibile lettore o fruitore, ma più che altro su me stesso: qualcosa che mi invogli ad andare avanti nella digitazione sulla tastiera. Per carità, non è che non sappia cosa scrivere, ho la testa piena di idee ma sono disordinate e disposte in ordine sparso: il mio problema, da sempre, è imporre una struttura logica a ciò che di più illogico ci sia in natura, la creatività.
E questa è la parte inquietante del mio “lavoro”.
Ed eccomi qui, mentre ancora  fisso  il display e mi perdo nel lampeggìo ossessivo del puntatore di videoscrittura. Lo guardo in attesa di un’ispirazione, di un incipit. Lo guardo fintanto che non mi si attorcigliano gli occhi, fino a farlo diventare un fastidioso sfarfallio nero su bianco. L’ennesimo frammento del mio caos.
Avete presente i maghi? Quelli dei film, immersi in locali di quart’ordine dall’aria di piombo? Ecco, loro hanno una sorta di proceduta standard che gli permette di rompere il ghiaccio con la platea e che a volte, e ripeto a volte, gli frutta anche qualche buon applauso:  tirano  fuori un piccolo coniglietto dal cilindro. Questo devo riuscire a fare: tirar fuori un coniglietto scalciante e tenerlo per le orecchie, mentre si guarda intorno e inizia a pulsare tra le mie dita.
Beh credo di aver trovato quel che fa al caso mio. Si, penso possa andar bene: il mio ”coniglietto magico” sarà una piccola scodella di ceramica bianca.
Vediamo un po’ che ne viene fuori.

E’ farinoso, come al solito. Guardo il mio pudding al cioccolato e non riesco a mangiarlo. Lo guardo e in mente non mi vengono altro che critiche. Farinoso, sfatto, stucchevole, osceno.
Lo muovo e lo spio mentre si dimena viscidamente nella scodella. E’ quasi pornografico.
E questa scodella? Un vero cesso! Ricordo di averne acquistate una decina in un negozietto giù a Camden, per poche sterline e qualche sorriso. E’ bianca, dalla forma perfettamente circolare, sicuramente non è una gran lavorazione, si vede subito che è prodotta industrialmente: cottura veloce, smaltatura ancora più veloce, non un’imprecisione. Decisamente senz’anima. Assolutamente stupida.
Potrei passare tutto il pomeriggio a guardarmi intorno, a studiare il piccolo mondo racchiuso nella sala da pranzo e sicuramente non vedrei altro che difetti. Si, perché oggi il mio mondo è un po’ più buio. Oggi la mia vita ha lo sguardo di un vecchio arcigno che sente di aver dato tanto e avuto poco, quasi niente.
Devo concentrarmi, condensare il pensiero su quelle che sono le mie colpe o, per lo meno, su quelle che dicono siano le mie colpe. Devo creare una solida linea difensiva, perché stasera sono solo: solo contro il mio paese e la forca, solo di fronte ad un mondo che si sbriciola in tanti cocci di vetro e che mi si scaglia contro, dilaniando quel che resta della mia anima. Ho bisogno di pensare, ma il ronzio nella mia testa non cessa. Sempre quel terribile ronzio elettrico, ogni tanto ritorna e poi, con la stessa velocità, se ne va. Ricordo bene come sia cominciato, con un fischio acuto, con la polvere e l’odore di cordite, con me che stramazzo al suolo, intontito dallo scoppio di una granata. Il fischio era il mio udito che intonava il suo canto del cigno: di lì a pochi giorni quei flebili suoni che ancora potevo percepire si sarebbero ovattati, fino a divenire gradualmente  un’incontrollabile cacofonia di ronzii e vibrazioni, un vero e proprio clangore che mi avrebbe privato delle notti nei mesi a venire. <<La vita non finisce dove finisce l’udito>>, mi ripetevano i medici militari. Stronzate! Ero fatto per stare dietro le linee nemiche, non dietro una comoda scrivania. Il danno permanente non mi permise di continuare neanche quell’altra, di vita. E così dovetti ritirarmi repentinamente dalle scene, adducendo per la stampa una vaga e frettolosa scusa circa la fine della mia ispirazione artistica.
Rieccolo, il maledetto ronzio, terribile e profondo come una fitta al cuore. Di nuovo non riesco a concentrarmi. Mi rendo conto di avere bisogno di un piccolo incentivo che mi aiuti a rilassarmi e a far sfumare le tensioni. Mi volto verso la vetrinetta dei liquori e lancio un’occhiata furtiva, fino ad inquadrare per un attimo una luccicante bottiglia di gin. Eccolo, il mio lare protettore, compagno di mille glorie e mille disfatte. Eccolo, il gin, il mio personalissimo grande nepente.
Questo sono io o, per lo meno, questo sono stato io. Un nobiluomo scozzese, schivo e profondo, abituato alla sterminata solitudine della mente e ai silenzi che da essa derivano. Un deserto antropomorfo di sabbiose dune geometriche e tutte uguali, intervallate di tanto in tanto da colazioni ateniesi, all’ombra di un Pantheon rubato e ormai nazista o da un tè aromatizzato alla menta e ai profumi di Istanbul. Un uomo le cui giornate duravano 48 ore: artista affermato per tutti, spia per Sua Maestà.
Di recente ho dovuto dimostrare la mia lealtà alla Corona eliminando una collega doppiogiochista, una persona a me talmente vicina da svolgere perfettamente il ruolo dell’insospettabile doppio agente del Terzo Reich. Una nota cantante e scrittrice di Portsmouth, la cui morte per arresto cardiaco ha insospettito da subito stampa ed opinione pubblica: troppo giovane e vivace per venire tradita così miseramente dal fisico.
Mi chiamo Nicholas McTaggart e sto per passare dallo status di monumento nazionale a quello di uomo più odiato della Nazione. La Difesa, sotto il peso dell’inchiesta, ritiene che il sacrificio di un singolo uomo, valido ma in fondo non inestimabile, sia un costo sobbarcabile, rispetto alla ben più grave eventualità di fughe di informazioni e probabili pubblicazioni di dossier riservati e potenzialmente devastanti per la tenuta del Governo.
Congedato dal servizio con onore, alla fine meriterò una tomba senza nome e il mio ricordo sarà odioso.
Loro non sapranno, ma ogni attimo del proprio respiro, ogni centimetro della propria libertà lo dovranno a me, a noi, e alle motivazioni del proprio odio.

Sono quasi due settimane che non vado avanti nella scrittura. Altro che demoni: il vero incubo è il mio. Ho passato il fine settimana a far finta di spronarmi e a ripetermi <<Domani ricomincio>>, ora sono qui e, immaginate l’orrore, penso alle scadenze e al fatto che senza un minimo di concentrazione il mondo di McTaggart non potrà mai evolversi: povero vecchio, sono due settimane che se ne sta lì, nella sala da pranzo, a rimestare nel torbido dei propri problemi e dell’alcolismo. Beh, vediamo di darci una mossa, che la vita è breve!
Primo bicchiere. Il più saporito e nel contempo doloroso. La bottiglia sembra sorridermi, mentre lo butto giù tutto d’un colpo. Secco, dirompente, violento. Man mano che scende, il gin sembra aprirmi uno squarcio dall’esofago fino allo stomaco, dove esplode in tutto il suo caldo fragore. Per un attimo rimango senza fiato, mentre i suoi vapori prendono bruscamente il posto dell’ossigeno nelle mie vie aeree, ma è solo un attimo e finisce subito.
Cosa penso? Penso di non averne abbastanza: se ancora riesco a visualizzare la mappa ordinata dei miei organi interni, vuol dire che sono ancora troppo sobrio e che ho decisamente bisogno di concentrarmi più seriamente sul bere.
Secondo bicchiere. Seconda corsa verso lo stomaco. Questa volta è sicuramente meno traumatica: il primo goccio mi ha letteralmente anestetizzato e potrei mandar giù una manciata di chiodi senza neanche sentirla scendere. Finalmente il caldo mi avvolge: non è un’impressione fastidiosa, piuttosto ricorda il tepore avvolgente e familiare del camino. Un agio effimero, mentre le membra iniziano a cedere e la sala si espande, fino a diventare smisurata e aliena.
Non credo di essere più tanto lucido, ma me ne sincero, con un buon terzo bicchiere. Per mettermi il cuore in pace, diciamo.
Forse sto iniziando ad esagerare. Il caldo ormai eccessivo mi ricorda che, alla mia età, il corpo ha dei limiti più contenuti. O forse mi sto convincendo di avere caldo. Forse è tutta colpa di quella foto, del fatto che da alcuni minuti la stia fissando come fosse un feticcio. Quando è stata scattata? E chi se lo ricorda? Ricordo il “dove”. El Alamein, all’imbrunire, probabilmente durante una missione o forse durante uno dei pochissimi viaggi di piacere. E’ una veduta del deserto. Faceva terribilmente caldo, proprio come ora. La sabbia si insinuava ovunque e, se ci faccio caso, posso ancora sentirla nelle scarpe e ovunque intorno a me. Le dune sono spiriti di puro moto infinito, trasformano e riconfigurano delicatamente il profilo mortale di una infinita distesa marrone chiaro, con un certo gusto per la ripetitività e per il disordine. Mi immergo in esse, mentre il sole scoppia in mille scintille ad illuminare un orizzonte ormai notturno. Mi immergo nel loro cuore e aspetto.
<<Avevo un sogno, un tempo>>.
Non mi ero accorto della sua presenza, da quanto sta in piedi dietro di me? Mi dà le spalle ma ha qualcosa di familiare, la sua voce ha qualcosa di familiare.
<<Avevo un sogno, un tempo. Ero giovane e immaginavo di rendere felice la gente con l’arte. Fantasticavo di calcare i teatri di tutto il mondo e di poter conoscere genti e culture diverse…>>
Un brivido mi percorre la schiena, mentre lui si volta mostrando un giovane me. I suoi occhi mi scrutano, così azzurri di vita ed ignari delle rughe future. Mi fissa e continua con tono grave e distante <<Purtroppo hai preso le tue decisioni, condannandomi. Mi hai spazzato via, hai spazzato via i nostri sogni. Volevo i teatri e mi hai regalato i teatri di guerra. Immaginavo di poter stare al fianco di Othello, o di amare insieme alla tenera Giulietta, credevo di poter terrorizzare la platea all’ombra del Mostro di Frankenstein, ma alla fine sono rimasto intrappolato in questo limbo, dimenticato in mezzo al nulla e costretto a rivivere all’infinito lo smembramento della Storia, in una battaglia ciclica e priva di ragione, dove al posto degli attori si contorcono fantasmi di conflitti infiniti e dove le uniche smorfie sono i dolori di mille e mille scontri. Guarda, vecchio egoista. Guarda a cosa mi hai condannato>>. Con un gesto della mano sposta il mio sguardo verso alcune sagome. All’inizio sono pura struttura, fredda e priva di movimento. Poi, lentamente, si animano mostrando ai miei occhi l’incubo di tutta una vita, il rimorso di un’esistenza. E così insegne romane, croci, baionette e maschere antigas, riunite in un’innaturale coreografia, mimano il momento della propria fine, ancora e ancora, moltiplicandosi a perdita d’occhio.
Voglio scappare, me ne voglio andare. E’ veramente questo il destino che ho scritto per la mia esistenza?
Il deserto scompare. La morte scompare e anche il mio doppio è ormai lontano. Per la prima volta nella mia vita, tornare alla monotonia delle pareti della sala da pranzo è un vero piacere.
Che profumo delicato: riporta alla mente vecchi ricordi. Sono ormai cinque anni che non lo sento. Cinque anni passati in solitudine, senza i suoi sguardi e in astinenza dai suoi sorrisi.
Lei è qui con me, lo so, posso sentirla in ogni fibra del mio corpo.
<<Parlami, ti prego. Liza, dì qualcosa>>.
Il silenzio è rotto.
<<Solo ora mi chiedi di parlarti? Solo ora che non sono altro che un’ombra immersa in una bottiglia?>>
Il profumo si fa più intenso, mentre mi rendo conto della sua vicinanza. Liza, la mia piccola Liza. Se ne sta seduta sulla poltrona sul fondo della sala e sembra a suo agio, ancora una volta stretta in quel corpicino vellutato e morbido.
Il suo sguardo, così silenzioso e profondo, mi ricorda che la mia non è semplice solitudine, ma piuttosto un esilio, e che non è cominciato cinque anni fa, bensì molto prima, quando decisi di dedicare l’ardore e i sentimenti alla Patria, portando a casa l’inganno e la morte, per affidarli alle sue amorevoli cure.
Liza mi guarda, mi studia e mi sfida, come una tela d’inarrivabile bellezza: la si può avere in testa, la si può acquistare, ma raramente si può possederne la poetica.
<<Che cosa vuoi, amore mio? Perché sei qui?>>
<<Io? Io non voglio niente: non ho neanche una coscienza, sono solo un parto della tua mente. Piuttosto chiediti cosa vuoi tu!>>
Già, cosa voglio? Perché ho richiamato Liza alla mente? Forse ho solo bisogno di un attimo di pace, nella mia ora più buia. Forse, in fondo al cuore, sento la necessità di ritrovare qualcosa di caro, qualcosa che veramente mi faccia sentire a casa.
<<Ma quale “ora più buia”, Nick! Da quando tutto questo è iniziato, ti sei mai chiesto quale sia il problema? Hai mai anche solo cercato di visualizzare nella tua mente il reato di cui sei accusato? Ovviamente no. Non è previsto dal tuo ruolo nella storia, caro il mio sergente, e non perché tu sia troppo vecchio o troppo ubriaco per fare una semplice addizione: molto più semplicemente, perché nessuno ha composto una sceneggiatura in cui tu sia descritto come un personaggio sufficientemente, come dire, introspettivo. La storia è povera, ergo Nicholas McTaggart è povero. Ma non hai ancora capito? Svegliati, sei in un teatro di posa. Questa stanza, questa… questa vita sono solo scena. Una scenografia priva di profondità, tra follia e compensato e tu… ah ah ah, tu sei un capolavoro di tristezza. Sei tutto rimorsi e “io, io, io” e nemmeno ti rendi conto di essere un comprimario. Nella Commedia dell’Arte saresti la maschera dimenticata ad impolverarsi dietro le quinte>>
Non ho bisogno di guardare per capire chi sia, o meglio cosa sia. E’ la voce dei miei rimpianti, il suono di una vita vana, il riverbero di tutti quei ricordi che ho deciso di dimenticare. Un cassetto chiuso, pieno di ritagli di giornale, lettere e vecchie foto, trasudante amore e odio. Un limbo a cui ho affidato la scomodità della memoria e che, col passare degli anni, ha assunto la forma di una prigione dell’anima.
E’ la mia insoddisfazione che parla, l’odio che provo per me stesso per aver lasciato che la malattia mi strappasse la mia povera Liza, senza neanche provare a combattere. E mentre lei se ne va per una seconda volta, il ciclo si ripete e a me non rimangono che la solitudine del grande buio e la follia in cui bruciare le mie passioni.
La mia colpa, quella vera, è stata convivere per anni con il disinteresse per tutto ciò che non fosse politica o tensione, lasciando al focolare domestico le briciole di una vita spesa sull’orlo di una voragine in cui, giorno dopo giorno ed un centimetro per volta, ho finito per consumare la mia stessa umanità. La mia colpa non è contro una giovane donna o contro il mio Paese: la mia colpa è contro me stesso, contro il giovane buono e idealista che sognava applausi e rose, ma che alla fine ha ottenuto immensi riconoscimenti per la sua capacità di fare del male. In questo senso sono un comprimario: ho lasciato che gli anni mi sfuggissero di mano, nel passaggio da un incarico all’altro, fino a ritrovarmi anziano, sfinito e senza storie da poter raccontare. Fino a ritrovarmi nella scomoda posizione del carnefice e, nel contempo, della vittima.
Come ho potuto permettere che la vita mi guidasse verso un orizzonte così cupo? Che senso ha avuto mettere a rischio la mia stessa vita per la difesa della Nazione se, in definitiva, non sono riuscito a difendere mia moglie, il mio cuore, il mio destino? Settant’anni e non ho costruito nulla, se non la comodità e la sicurezza degli altri. E a me? A me non rimane niente, a parte un pudding pomeridiano e una bottiglia ormai vuota. L’aria incerta degli abitanti di Londra di fronte ai solenni proclami di Churchill e le macerie della Nazione saranno la giusta, terribile sepoltura per un uomo, per uno spirito che ha sacrificato tutto, senza riuscire a evitare l’ineluttabilità degli eventi e la trasformazione della guerra in puro terrorismo.
Dove andrò e cosa farò da questo momento sono poi quesiti poco importanti. So di essere arrivato al limite della coerenza psichica e sto per varcare una soglia, quella di questa stanza, che mi metterà di fronte a quegli stessi orrori che ho affrontato per tutta la vita. Il disequilibrio celato nel resto della casa, al di fuori della sala da pranzo mi aspetta, con le fauci spianate e i rantoli soffocati sotto i tappeti.
Apro la porta, mentre mi chiedo dove mi porteranno i miei incubi e cosa pretenderanno da me i miei giorni a venire. 
<<A questo posso rispondere io>>.

Già, a questo posso rispondere io. McTaggart non può ovviamente vedermi, ma può sentirmi nella sua testa, nel suo essere, in tutta la sua struttura. Il vecchio potrebbe essere un mio avo, ma in realtà è mio figlio. Anzi, è ben più di un figlio: è una mia maschera, una delle tante. Quanto può essere duro spiegargli che la sua vita, la sua storia e tutti i suoi fumosi ricordi siano frutto di una mia allucinazione? Molto? No, per niente. Non mi crea alcun rimorso far finta di spiegare a qualcuno, che neanche esiste, che la sua vita è fittizia, che non ha alcun reale vissuto e che la sua esistenza inizia con una scodella bianca e finisce con una bottiglia vuota e un bicchiere pieno di domande, davanti ad una porta.
Dovrei partire dal principio, dalla sua forma di anziano essere umano. Si, dovrei partire da qui e spiegargli che la mia immaginazione ha creato diverse realtà per la sua vita, una sorta di multiverso in cui una volta lui è l’uomo che interpreta, un’altra è una donna, un’altra ancora è una rana in uno stagno e così via.
Per voi che leggete, la storia di McTaggart finisce qui, con tante domande e una spada di Damocle sulla testa. Per me è solo all’inizio e continua ad esplodere e a dipanarsi come un vivido big bang. Nei miei occhi, nelle mie orecchie, nelle mie dita l’uomo, il soldato, l’attore continuano ad esistere, a vivere e muoversi in un mare di dubbi e di comportamenti al limite dello psicotico.
A voi non resta che voltare pagina e immergervi in un nuovo immaginario.
Forse un giorno mi verrà voglia di buttar giù altre due righe ma, per ora, ho sonno e ho solo voglia di farla finita con questa storia e andare a dormire, portandomi dietro i miei, di demoni.
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Giuseppe Borio

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