27.8.12

LA VIA DI FUGA

Mimmo entrò in salotto, aspettando che Sara arrivasse,
e accese la lampada posta dietro i divani messi ad angolo, di velluto verde. I divani erano l’unica concessione moderna in una stanza con mobili in stile ‘800, della madre di lui, vissuti come imposizione da Sara, che li avrebbe voluti invece squadrati e bassi, tipici di quei primi anni ’60.
Si sedette al solito posto, quello del divano che dava proprio di fronte al quadro, “quel” quadro.
A differenza di tante altre sere, quella aveva qualcosa di diverso.
Sara l’aveva pregato di accomodarsi e di aspettarla. Dopo essersi vestita e truccata con cura lo aveva raggiunto, spingendo un carrello con lo champagne nel secchiello del ghiaccio e due bellissimi calici di cristallo.
Era passato un anno, Mimmo capì che Sara voleva festeggiare con lui la fine di quello che era stato un brutto episodio da dimenticare, una macchia nella loro vita insieme. Ma qualcosa di quella messa in scena gli sfuggiva, come gli sfuggiva il motivo del perché proprio stasera si ritrovava a fissare il quadro, a perdersi dentro come allora; in fondo era la solita antica scena di caccia alla volpe, con i cacciatori che correvano a cavallo vestiti di rosso e armati di fucile, e la volpe che cercava rifugio verso il verde dei cespugli che si trovavano sulla destra dell’immagine, quasi a ridosso della cornice.
Quel quadro era stato un dono del padre di Sara, lei ci teneva molto, ritraeva uno scorcio della tenuta di suo nonno, con alberi secolari e grandi distese verdi su una collina.
A Mimmo invece non era mai piaciuto particolarmente. Ora poi, gli ricordava la sua di fuga, la disperazione dei momenti in cui aveva percepito il pericolo. Gli sembrava di sentirsi ancora addosso la tensione, e quell’odore forte e aspro di adrenalina che si diffondeva su tutto il corpo, l’odore della paura.
Mimmo era scappato come quella volpe, inseguito da più parti, divorando l’aria che lo ostacolava nella corsa, lo sguardo sbarrato dal terrore, la testa che scoppiava per il rimbombo dei battiti furiosi del suo cuore.
Rivisse quel senso di persecuzione, di maldicenza appiccicosa, tutte le prove costruite ad arte per eliminare lui, un integerrimo, incorruttibile servo della legge.
Anche Mimmo aveva attraversato il verde dei boschi, aveva trovato rifugio in una casetta di campagna e aveva atteso immobile che le acque si calmassero, o meglio, che Sara sbrogliasse l’incredibile matassa di accuse che lo aveva avvolto come la tela di un ragno e che stava per portarlo dritto in carcere.
Quando Sara entrò in salotto lo trovò assorto, lo sguardo perso nel quadro, la postura rigida come se stesse per scattare in piedi e correre, per nulla rilassato.
Lei si sedette sul divano di lato, come faceva sempre, posizione che le permetteva di essere vicina alla porta, alla destra del marito. Da lì Sara poteva anche osservare il quadro, e infatti per alcuni istanti lo fissò anche lei, ricordando gli avvenimenti che ormai si erano lasciati alle spalle, anche se vedere la fuga della volpe ora le dava un senso di libertà. Il quadro stasera per lei aveva assunto un nuovo significato.
Mimmo e Sara erano una coppia di mezza età, con un figlio adulto - Giovanni - che da tempo ormai viveva da solo, una vita di routine scossa da un unico intoppo di natura giudiziaria che per fortuna era stato risolto senza aver lasciato alcun danno permanente.
Mimmo lavorava come funzionario al Ministero delle Finanze, aveva un carattere all’apparenza calmo e stabile, ma sotto la superficie covava un’ansia che solo Sara aveva imparato a conoscere e riconoscere.
Per lui tutto doveva rientrare in regole, in norme che lui stesso aveva stabilito, nessun imprevisto, nessuna deviazione, risultato dell’educazione rigida che aveva ricevuto. Tutto per lui era bianco o nero, non ammetteva deroghe, la flessibilità era un concetto astratto.
Sara era casalinga non per scelta, una laurea in storia dell’arte nel cassetto mai chiuso del suo cuore, l’accettazione quasi passiva di un’esistenza monotona, piegata al volere del marito, che ogni tanto le faceva mordere le labbra per la rabbia e l’insoddisfazione.
Il suo desiderio di diventare critica d’arte, di viaggiare per recensire mostre e autori, era morto con il matrimonio e l’arrivo del figlio. Le pressioni dei suoi famigliari e le convenzioni sociali del tempo, secondo le quali una moglie doveva dedicarsi al marito e, se madre, totalmente anche ai figli, avevano soffocato ogni sua ambizione di realizzazione esterna o semplicemente personale. Pur avendola tanto desiderata, quella vita costituiva una limitazione alla quale, ora sentiva, si era piegata troppo docilmente.
Ma quella sera era luminosa nel nuovo tailleur giallo pallido, i capelli raccolti con cura in uno chignon elegante, il filo di perle ereditato dalla nonna, e un sorriso lieve che non riusciva a dissimulare una gioia segreta, nonostante la tensione che provava.
Mimmo aspettava che lei parlasse, che ricordasse anche per lui il fatto per il quale lo champagne aspettava fermo e muto nel suo secchiello.
“Eccoci qua” disse Sara con semplicità (imbarazzo? Si chiese Mimmo).
“Già, è passato un anno esatto” disse lui, cauto.
“Possiamo dire che è tutto finito, e nel migliore dei modi. Sei d’accordo?”
“Certamente, anche se forse questo brindisi non l’avrei neanche immaginato” fece lui.
“Lo so, Mimmo, tu non ammetti cambiamenti, neanche in occasioni speciali, ti conosco bene. Ma io stasera voglio sentirmi diversa, vorrei tanto che per una volta tu mi accontentassi. Vuoi?”
“ Se è per farti felice…” esitò.
Non ne capiva il motivo, ma sentì il disagio crescergli dentro, quasi impercettibilmente.
Sara prese la bottiglia e la passò a Mimmo perché la aprisse. “Un anno fa sei tornato a casa, dopo che tutto si è chiarito, hai ritrovato il tuo lavoro e la tua vita. Anche Giovanni ha ripreso in mano lo studio. Tutto sembra tornato come prima”.
Sara fece una pausa, lunga.
Mimmo la guardò stupito, ma non disse nulla.
“Ricordi?” continuò lei, “ti coinvolsero nell’affare dei controlli fiscali concordati in cambio di denaro, accuse gravi per un funzionario, soprattutto per uno irreprensibile come te, conosciuto e rinomato per la sua correttezza professionale, per il suo rigore morale”.
Dalle sue parole sembrò emergere un’ombra di critica, un velo di scherno.
“Sì, davvero un brutto momento”, Mimmo quasi la interruppe, fingendo di faticare più del dovuto a liberare dal tappo la bottiglia con il collo abbigliato di stagnola dorata.
“E ricordi quanto ti fui vicina allora? Contattai Franco: fu lui che mi spiegò come agire per scagionarti”.
“Sara, lo sai che non ho mai digerito che tu rivedessi il tuo ex, anche se è stato per una buona ragione” sbottò Mimmo seccato.
“E tu sai benissimo che se non fosse stato per lui, probabilmente oggi saresti dietro alle sbarre” ribattè lei, un filo di durezza inaspettata nella voce, di solito calma e dolce.
Mimmo la scrutò; ma dove voleva arrivare, perché scavare in quel passato troppo recente il cui ricordo gli faceva salire il caldo alle tempie?
“Franco mi è stato di grande aiuto e anche di conforto, sappilo, non so che avrei fatto senza di lui”.
Sara ora guardava avanti a sé, senza un punto preciso, si rivedeva sola, disperata.
Mimmo versò lo champagne nei calici e gliene porse uno. Voleva passare oltre, evitare di rivivere quel tormento che ancora tornava la notte; l’inconscio non si poteva controllare, lo sapeva, era questa sua parte ribelle a squarciare i sogni e a farlo balzare a sedere sul bordo del letto.
“Prima o poi le accuse sarebbero cadute comunque, dal momento che erano infondate” disse, ma nel mentre ricordò lo strazio di essere creduto colpevole, uno come lui, di aver preso denaro in cambio di controlli fiscali miopi e preannunciati.
Più delle accuse gli era pesato lo sguardo della gente, soprattutto dei colleghi, dei quali si era sentito addosso persino i pensieri, sporchi e taglienti. Il suo vissuto gli sembrava quello di un insetto preso da una carta moschicida che lo faceva dibattere inutilmente per liberarsi. Dopo un anno, ancora non si sentiva libero del tutto.
“Franco” continuò Sara, “mi spiegò che suo fratello poteva aiutarci a scoprire come ti avevano incastrato, risalire a chi aveva accreditato tutti quei soldi sul tuo conto, chi avvisava le imprese di un tuo prossimo controllo, chi aveva falsificato e firmato i rapporti al tuo posto”.
Dovresti essere grato anche a Enzo, si è preso a cuore la tua causa, ha lavorato tanto per riabilitarti dopo che Franco ti aveva nascosto nella casa in campagna”.
“Ma sì, ma sì, certo, gli sono grato lo sai!. Anche a te e anche a Franco, non mi sono dimenticato. Ma se dobbiamo brindare facciamolo pensando a oggi, al nostro ritorno alla vita di sempre”, e così dicendo Mimmo prese il suo calice e lo accostò a quello di Sara, che a sua volta avvicinò il suo.
“A noi” disse Mimmo, e facendo tintinnare i due calici con delicatezza.
“A me e a te” disse Sara.
Mimmo rimase interdetto, “Cosa vuoi dire?” chiese.
“Che brindiamo a noi due, sì, ma come individui, non come coppia”, Sara ora lo guardava dritto negli occhi, sicura di sé come poche volte si era sentita da tanti anni a questa parte.
Ci fu un attimo di silenzio.
Poi Sara bevve un sorso dal calice e rimase a osservare il mezzo sorriso che il rossetto vi aveva impresso sul bordo.
Mimmo invece rimase con il braccio a mezz’aria, scrutandola con aria interrogativa.
“Devo spiegarti il secondo motivo di questo brindisi” disse finalmente lei, poggiando il calice davanti a sé sul tavolino.
“In questo anno ho preso coscienza di me, di quello che è stata la mia vita, di cosa ancora posso e voglio farne”.
Mimmo rivide sua moglie come in un flashback quell’ultimo anno: la sua forza nel rassicurarlo che tutto era passato, la risistemazione della casa, che appariva più luminosa e accogliente, e soprattutto della camera di Giovanni, ora diventata il suo studio.
E poi taglio e tinta nuovi per i capelli, i vestiti colorati che aveva cominciato ad indossare, quel sorriso sereno che ormai faceva parte della sua nuova immagine.
“Spiegati meglio” le disse lui a bassa voce, il corpo affondato nel divano, mentre Sara gli toglieva di mano il calice con lo champagne che non aveva toccato e lo posava sul tavolino, ma lontano dal suo. Mimmo non potè fare a meno di notarlo, sentendo come una morsa che gli chiudeva lo stomaco.
Sara lo guardò e riprese: “Mimmo, ti sono sempre stata accanto come un’ombra, ho curato la casa, il bambino, i rapporti sociali. Ma sentivo che mi stavo perdendo, ho come interpretato un ruolo che la vita, anzi, io stessa mi sono assegnata” fece un sospiro. “Non ho voluto vedere quel vuoto che mi cresceva dentro sempre più. Tu sai che desideravo lavorare con e per l’arte, la mia passione fin da bambina. Mi hai conosciuto che ancora studiavo e non puoi non ricordare i discorsi che facevo, i progetti che avevo per il mio futuro”.
 “Ma poi ci siamo sposati” la interruppe Mimmo “E’ arrivato il bambino e…”
“Oh sì, Giovanni, come tuo padre, come voleva tua madre”
“Ma lo volevi anche tu”
“Io volevo solo che tu fossi felice. Il bambino l’avrei voluto dopo aver avviato la carriera come critica d’arte, bastava aspettare qualche anno; ma certo, avrei dovuto viaggiare…e questo non ti andava”.
“Ti sei voluta sposare” la interruppe lui, ma lei riprese subito “Sposarsi non è morire, e io pian piano, chiusa in casa, sono morta dentro, tu non te ne sei neanche accorto”
“Ti sei lamentata di tutto e di tutti” la accusò, “non eri mai contenta”.
“Perché ogni cosa mi allontanava sempre più da quello che desideravo per la mia vita”.
Mimmo si alzò in piedi e iniziò a girare per la stanza, agitato.
Sara guardò il quadro, come aveva fatto un anno prima, cercando aiuto.
Quando tutto stava precipitando, una sera di grande sgomento si era ritrovata a fissare quella scena di caccia che sembrava così appropriata alla situazione che stavano vivendo.
Istintivamente aveva cercato il punto di fuga prospettico, la convergenza delle linee di profondità secondo le quali la scena era stata dipinta. Il centro della prospettiva portava lo sguardo in direzione di una piccola macchia bianca, verso l’angolo a destra in alto del quadro.
Osservandola con attenzione aveva scoperto che quella macchia era una casetta…nella tenuta di suo nonno c’era una casetta così, poco più di un capanno, un riparo in caso di intemperie: proprio ciò di cui ora c’era bisogno.
Così aveva chiamato Franco, lo aveva pregato di ritrovare quel rifugio e lui ci aveva nascosto Mimmo per un mese, fino a quando tutto non venne chiarito.
Questa volta Sara guardò invece i cacciatori. Le parve che ogni figura le ricordasse qualcuno che l’aveva ostacolata nei suoi desideri.
Più indietro nella corsa, tre figure le ricordarono i suoi genitori e la suocera. I primi l’avevano spinta al matrimonio con Mimmo, buon partito che le avrebbe assicurato una vita agiata e tranquilla, scongiurando loro l’imbarazzo di una figlia nubile in giro per il mondo. La suocera aveva fatto il resto dopo il matrimonio, addossandole responsabilità domestiche e sociali prima, e di sensi di colpa poi, riguardo al marito e al figlio che, secondo lei, non curava a dovere.
Sara ricordò il senso di debolezza che l’aveva colta, i rari tentativi di autonomia derisi e soffocati con fermezza, il tormento di non sentirsi appagata, grata alla vita per quello che aveva ricevuto.
Il piccolo cacciatore davanti agli altri le ricordò invece suo figlio. Allevato con l’influenza dell’onnipresente nonna, Giovanni aveva imparato presto come manipolare sua madre: si era rivelato un bimbo inquieto, ribelle, abile nel suscitare in Sara quel risentimento che poi dentro di lei si trasformava in senso di colpa, portandola così ad assecondare il figlio anche quando non avrebbe dovuto.
“Quindi cosa conti di fare?” Mimmo aveva percorso più volte lo spazio del salotto di fronte al divano, borbottando accuse, amarezze, recriminazioni varie, che Sara ascoltò vagamente. Aveva imparato da tempo ad attivare una sorta di pilota automatico di ascolto, per non farsi ferire oltre il necessario.
“Voglio riprendere in mano la mia vita, soprattutto quella professionale” Sara aveva distolto lo sguardo dal quadro e ora fissava il marito con una nuova consapevolezza.
“Un anno fa, quando ho rivisto Franco, ho capito di aver messo in un angolo una parte importante di me. Mi  sono sentita un’estranea persino verso me stessa.
 “Non ti capisco, hai avuto tutto…ti ho dato tutto!”.
“Tutto meno che la possibilità di essere autonoma, libera, poter esprimere un parere diverso dal tuo, essere altro da te e dalla tua famiglia. Ho vissuto una vita che è stata mia solo in parte. Guardati intorno: questa casa non mi rappresenta, persino mio figlio non ha il nome che avrei voluto dargli. Una vita in funzione delle aspettative altrui…sono stata debole, ripeto, ma da un anno a questa parte mi sento molto cambiata. Aiutarti a risolvere i tuoi problemi con la giustizia mi ha fatto recuperare l’autostima di un tempo. Ho capito di potercela fare ancora, anche senza di te, se tu non vorrai…”
“Ma…Franco….” La interruppe Mimmo.
 “Franco mi ha solo aperto gli occhi, mi ha ricordato la mia passione per l’arte, i miei insegnanti che vedevano per me una bella carriera, i miei progetti per un futuro radioso. Ma io una parte di questo futuro ce l’ho ancora, e non voglio rinunciarci di nuovo!”.
In questo anno, mentre tu e Giovanni riprendevate le vostre esistenze, io ho riflettuto sulla mia. Ho ricominciato a studiare, aggiornandomi e recuperando così gli anni che ho perso. Ho ricontattato ex-colleghi di università, amici e conoscenti dell’ambiente di allora e…ho trovato un lavoro”.
Mimmo si lasciò cadere sul divano, senza forze.
“Un lavoro…?” La sua voce era diventata un sussurro, gli occhi la fissavano per la sorpresa.
“A Londra hanno apprezzato gli articoli che avevo spedito a varie riviste d’arte contemporanea e mi hanno proposto una collaborazione, mettendomi anche in contatto con importanti gallerie. Non posso perdere questa grande occasione”.
“Ecco il motivo del brindisi” disse Mimmo. Pareva accettare la situazione, rassegnato.
“Ecco uno dei motivi. Sono molto felice che per te sia finita bene e che Giovanni sia sereno. Ora spero che anche per me ci sia una ‘via di fuga’ che mi porti a casa, o meglio, che mi riporti al punto dove mi sono interrotta venticinque anni fa”.
Sara prese i calici e porse il suo a Mimmo. “Se mi vuoi bene non potrai che essere felice per me. Sei disposto ad accettare dei cambiamenti?”.
Mimmo la osservò con occhi nuovi, “Ecco la nuova Sara…no…quella vera…”, pensò.
Inghiottì a vuoto e poi rispose, ancora incerto.
“S-sì, ma sono un po’ confuso. Ora che farai? Andrai a Londra?”
“Parto la prossima settimana, porto con me solo i miei effetti personali e il quadro” e così dicendo lo indicò con il calice.
“Il quadro? E perché?”
“Perché è grazie a quello che sono riuscita a trovare la verità, prima la tua e poi la mia, non posso più separarmene, mio padre non saprà mai quanto il suo regalo mi sia stato di prezioso aiuto”.
“Sara… e noi due?” le chiese con voce di speranza.
Lei sorrise.
“Si vedrà, niente programmi, per ora”.
Sara fece tintinnare i calici, aspettò che anche Mimmo bevesse e poi lo baciò.
***
Monica Solinas 

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