27.8.12

LA VIA DI FUGA...NELLA TELA

“Caro, domani alle 18 ci sarà l’aperitivo d’inaugurazione dell’asta d’arte moderna in Bloomsbury House.
 Spero tu voglia onorarci della tua presenza; arriveranno da Roma un paio di Guttuso che potrebbero interessarti”. Così irrompeva gracchiante, nel silenzio della cena, miss Madeleine Dunne, intercettando, proprio nel punto centrale, la sinuosa ellisse tracciata dallo sguardo di suo marito giù alla zuppa vegetale, su alla Torino di De Chirico.
“Sarò impegnato in Dipartimento fino a tardi, ma conto di farci un salto”, rispondeva laconico sir Edward Eliot Blake, insigne professore di Storia dell’Arte Italiana al King’s College di Londra, eminente critico d’arte e membro fondatore dell’OmegArt Workshops, a volerlo introdurre con tutti gli onori.
La comparsa di suo marito al vernissage avrebbe ammantato la donna, desiderosa di tirare a lucido l’aura di onorabilità acquisita nell’alta società londinese come infaticabile promotrice di eventi artistici, di un fascio di luce riflessa. Lei, col suo passato ordinario da insegnante della St. Lukes Church Primary School…
Stavano arrivando a lui. Il pensiero si insinuava a tratti nelle acque chete della mente accademica col guizzo puntuto e fulmineo del pescespada. A cerchi concentrici, ci stavano arrivando, come se ci avessero scaraventato un macigno, in quelle acque. Se non fosse stato per il suicidio in carcere di quel giovane farneticante che si era sempre detto innocente, la Criminal Cases Review Commission non avrebbe mai riaperto il caso. E quella trasmissione televisiva, “Missing”, tutte le settimane a scavare nel fango come una putrida trivella. Tutto a causa di una studentessa sfrontata che non aveva saputo tenere a freno l’ardore giovanile! Quelle continue contestazioni, quel fare spavaldo che abbatteva come un fiume in piena gli argini dell’autorità, della decenza, della morale. Quei seni acuminati che venivano fuori dalla maglietta come stiletti pronti a trafiggere la carne secca.
Era stata una passione straripante, a cui il professore aveva tentato di porre un argine senza troppe spiegazioni. Ma la ragazza, bella e indomita, non accettava il rifiuto, minacciando con insistenza di rendere noti alcuni documenti del gruppo Engelberg, i “padroni del mondo” come venivano chiamati, di cui era entrata in possesso rovistando negli archivi segreti del suo mentore. Come Arianna, aveva violato il segreto del labirinto.
“… dovresti vedere la sezione dedicata all’Art Nouveau! E’ presente la Medusa in avorio di Lalique e un paio di statuine centrotavola in biscuit di Aghaton Léonard, così vere che pare che parlino…”.
“Ah!, potessi tacere per sempre, stupida statua d’appartamento!”, pensava sir Edward di sua moglie, così vera che le sue parole ruvide si infrangevano da trent’anni sulla sua coscienza come ondate di risacca, graffiandola, ma senza riuscire a scuoterla.
“Starebbero bene sulla cassapanca in noce tanganica. Ricordi, amore, quel viaggio in Tanzania? Ti venne quella forma di leishmaniosi che ti costrinse a letto per giorni in preda a febbri violente. Che gran caldo faceva! La sera rimanevo al tuo capezzale a rinfrescarti la fronte con un panno umido mentre eri in preda a terribili deliri…”.
Era in vena di rievocazioni esotiche la sollecita miss Madeleine, mentre sparecchiava la tavola dalle stoviglie in porcellana candida, quando ancora suo marito consumava gli ultimi bocconi del pasto serale, frugale e insipido. Da anni l’uomo vedeva la figura esile e minuta di sua moglie, un fascio di nervi tesi avvolto nei grigi tailleurs in linsey-woolsey, guizzare felina in cucina per liberare la sala da pranzo dai residui indecorosi dei viveri. Quasi che la vita compassata e asettica del soggiorno, un ambiente intimo ricavato a un livello sottostante rispetto al gran salone dominato da una libreria in massello di rovere racchiusa in una nicchia lungo l’intera parete, avesse a contaminarsi delle frattaglie del vivere. Attorno, un gioco di boiserie d’ebano intarsiato di legno di rosa che ospitava, incastonati come gemme preziose, dipinti di illustri esponenti dell’arte italiana, conquistati dal professore a colpi di martello.
“Nel caso dimenticassi, c’è lo specchio ogni mattina…”. Non finiva mai le frasi, sir Edward, lasciando l’interlocutore sospeso nel dubbio di non meritare un finale compiuto. Dubbio avvalorato dalla consapevolezza di non essere mai il punto d’arrivo, ma di essere semplicemente trapassato dalla traiettoria rettilinea e incisiva dello sguardo dell’uomo volto verso un altrove indefinito e lontano. “Oh, caro”, era il pietoso commento della donna riguardo alla faccenda, mai espressa, delle cicatrici deturpanti che la malattia aveva disseminato sul corpo del marito, di cui lei conosceva l’intera mappa, tutti gli altri il solco incrostato sulla guancia sinistra.
“Ah! Ha chiamato ancora quel giornalista di “Missing”, mi pare si chiami Conwell, devo averlo scritto da qualche parte… hai idea del perché ti cerchi con una tale insistenza?”. L’ultima frase fu detta in un crescendo di petulante ansietà.
“Non ne ho idea”, rispose l’uomo, fissando il punto di congiunzione delle coordinate equatoriali con un fulmineo guizzo di stizza sull’iride.
Che fare ora. Se avesse continuato a negarsi, la sua reticenza sarebbe apparsa sospetta; se si fosse esposto accettando un’intervista pubblica, sarebbe balzato alla ribalta della cronaca come una delle ultime persone ad aver incontrato la studentessa. Viva.
Questa circostanza, rimasta sopita per anni negli strati sedimentari più profondi, colava, densa e melmosa, dallo squarcio tumefatto aperto nella pelle della storia. Il mandato di comparizione, infilato con rabbia nella tasca destra del loden olivastro dimostrava che i fatti, come pesanti massi, possono risalire a galla sotto la spinta propulsiva del caso.
Otto coltellate sferrate dritte sul petto, e un brandello di cuore asportato dopo averlo sezionato chirurgicamente. Più che un massacro, si sarebbe detto un rito iniziatico in piena regola praticato su una giovane donna nel bagno di una prestigiosa università inglese. Accadeva nel luglio 1982, in un sabato affogato in una bolla di afa opprimente. Questo aveva decretato il medico legale, anche se il corpo fu trovato solo il lunedì successivo, un’ora e mezza dopo l’apertura dell’ateneo, da un giovane seminarista algerino. Quest’ultimo era stato torchiato per anni, senza riuscire a comporre a suo carico uno straccio di prova che stesse in piedi. Ma cosa c’era entrato a fare Hussein Ghassan quella mattina nel bagno delle ragazze? Era davvero stato attirato da un rubinetto che perdeva acqua? Questo era il dubbio che gli pendeva sul capo, e a cui lo stralunato studente non era mai riuscito a dare una risposta convincente. Dopo due verdetti mancati, al terzo processo la Westminster Magistrates Court lo aveva condannato all’ergastolo, consegnando il suo scalpo sacrificale all’opinione pubblica. Eppure sul caso la Commissione “Cold Cases” non mancava da anni di sollevare perplessità. Nessuna ipotesi sul movente, niente arma del delitto, e sul corpo della vittima nessuna traccia di violenza carnale. Unico indizio, un guanto rosso in lattice abbandonato accanto al cadavere della donna. Ma chi era Ariadne Mills, la bella studentessa laureatasi due anni prima al King’s College e diventata ben presto una delle più brillanti ricercatrici dell’ateneo? L’unica sua colpa sembrava essere quella di essersi trovata per caso nei bagni dell’università in cui avrebbe dovuto tenere un intervento al seminario estivo sul tema dei simboli esoterici nell’arte figurativa del ‘900. La sua vita era stata rivoltata in tutti i lati dalle investigazioni giornalistiche nel corso degli anni, ma non era emerso nessun elemento che potesse aprire scenari oscuri nella vita intensa della giovane donna impegnata negli studi e nell’arte. Suonava il violoncello, Ariadne.
Ora sir Edward ricordava di quando andò a sentirla ad un concerto, anonimo fra il pubblico. Suonava il Flamenco di Tagell, e il suo corpo, caldo e vigoroso, vibrava al ritmo battente delle sue dita. Si scuoteva, nella concitazione del compàs, e ondeggiava, quando la melodia si placava. L’ostinato ritmico incalzava, cavernoso, nelle ottave basse dello strumento. Il cuore batteva roboante all’unisono, scalciando alle porte del petto. Uno, due, tre squilli irrompevano alla coscienza dell’uomo in un sussulto che squarciava il velo sottile del ricordo.
“Vado io”, diceva Madeleine, zampettando compita verso il telefono.
“Un attimo….sì, un attimo, prego… Edward, c’è quel tale della televisione…, cosa vuoi che gli dica”, sussurrava la donna, tappando i fori della cornetta con mano amorevolmente complice.
“Fatti lasciare il numero, lo richiamerò domattina”, bofonchiava il professore, con ostentata irritazione.
Bisognava prendere tempo, e mantenere la calma.
Sir Edward assunse automaticamente la posizione della doppia squadra: schiena dritta, gambe ad angolo retto, piedi in linea con le ginocchia e mani adagiate mollemente sulle cosce. Lo sguardo immobile era volto in avanti, la mente sgombra dalle catene del pensiero ad immergersi nei suoni sordi del rituale: i movimenti soffocati dei passi squadranti la scacchiera, le parole sacralizzate del Gran Maestro, i colpi secchi del maglietto che scandiscono lo scorrere immutabile del tempo iniziatico. In questo clima di fertile silenzio l’uomo crea una nuova realtà e muta la propria natura, accedendo alle trame della conoscenza suprema. Dunque bisognava tornare al silenzio per ricreare un altro sé.
Molteplici vie di fuga si aprivano, ingannando lo sguardo, nella prospettiva metafisica di De Chirico. Ma era sulla linea mediana degli eterni porticati dell’edificio a specchio che si sospendeva lo sguardo dell’uomo, in bilico fra le ombre scure e i fasci di luce proiettati dal sole inclinato del tramonto, creando uno spazio teso tra l’illusione e la costrizione della realtà, che conduceva al di là del quadro, nella vita silente della Torino a primavera. All’orizzonte un treno sbuffante.
Bisognava partire al più presto, i Fratelli avrebbero pensato ai documenti d’identità.
I chiaroscuri dei portici promettevano la quiete del meditare protetti, nel solitario andare per i lunghi antri della loggia, dal frastuono della modernità. “La geometria delle prospettive architettoniche di questa città è l’ideale per cancellare le cose per sempre”, pensava sir Edward, ricordando, alla vista del cavallo che spinge il muso verso il petto alzando la zampa destra infondo al quadro, che in quella città irreale, proprio di fronte al monumento equestre a Carlo Alberto, Friedrich Nietzsche impazzì. Una città spettrale avvolta da una luce pallida e diffusa che allunga le ombre ed evidenzia gli oggetti in modo abnorme, frugando nel senso della loro materia. Una luce in cui la realtà si trasfigura, annegando la memoria in uno spazio sospeso senza tempo, né suono, né moto.
La paralisi del tempo anestetizzava la memoria, sollevando per un attimo l’uomo dalle proprie inquietudini, fino a smarrire il suo Io e dissolversi nel suo doppio. “Così è - meditava il professore nei meandri della sua coscienza - l’uomo metafisico di De Chirico, nient’altro che una maschera, una rappresentazione onirica in cui tutto ciò che lo opprimeva svanisce nella penombra del ricordo, un ricordo che libera dall’angoscia”.
“Edward, va tutto bene?”. L’acuto penetrante di Madeleine faceva trasalire l’uomo, che si accorgeva solo in quel momento dei rigagnoli di sudore gelido che gli penetravano nei solchi del viso. Gli occhi erano fissi nel quadro, che diventava smisuratamente grande, finendo per assumere i contorni della stanza.
L’angoscia irrompeva come uno squarcio violento nella tela. L’effrazione mortale vi era celebrata. La lacerazione dell’anima si materializzava nelle lamine cineree del carciofo appoggiato su un cubo ocra, mentre sul margine sinistro del dipinto incombeva come un ematoma scuro su un pannello bianco, esposta nella sua monumentalità mutila, una mano rossa con l’indice puntato verso il basso, al mistero laico delle cose del mondo. Le volgari illazioni dei giornali avevano parlato di “delirante furia omicida a sfondo passionale” per interpretare il senso della mutilazione del cuore di Ariadne. Stolti!, il professore non aveva inteso consumare alcuna violenza sulla donna. “Secondo la leggenda degli Iroqui – ora il docente si ergeva in cattedra, spiegando il suo gesto a una giuria di manichini chiamati a giudicare il suo crimine - fu necessario offrire al saggio Mano Rossa, custode dei segreti del Labirinto, un brandello del proprio cuore affinché potesse rivivere dopo un agguato mortale”. “La morte è necessaria per ricreare la vita”, filosofeggiava il docente, voltando le spalle alla giuria con le mani giunte dietro la schiena. Così gli oggetti disseminati nel quadro rimandano a una memoria remota non ancora sopita, reperti archeologici di un mondo in declino destinato a un lento risveglio, brandelli tronchi di materia da ricucire in forme nuove.
Ora Elias Labia cammina sotto i portici di Piazza Castello avvolto nel suo blazer in gabardina di cotone beige, il bavero sollevato. I Fratelli gli hanno trovato un appartamento ad angolo fra via Roma e la grande piazza monumentale. Vi si sta dirigendo all’ora del tramonto. Oltre le bocche spalancate dei portici la città è deserta, rischiarata dai lampioni Settecento grande che ricordano le lanterne a gas; le uniche presenze umane sono i marmi e i bronzi delle statue, che l’uomo vede scendere a un tratto dai basamenti e incamminarsi mestamente verso la piazza per dar luogo a misteriosi conciliaboli. Vede muoversi l’Alfiere dell’esercito sardo di Vela, avvolto da un gretto pastrano, che impugna il tricolore nella mano destra e la spada nella sinistra con l’audacia di chi è pronto a difendere la propria bandiera. Lo scorta a cavallo il Cavaliere d’Italia del Canonica con le redini e uno stendardo in mano. I fantasmi nietzschiani si sovrappongono alla fantasia dell’uomo: compare Lagrange, lo scienziato pensoso, che si appoggia al braccio possente del colonnello Missori, dai baffi di grognard. In disparte Garibaldi è intento ad ascoltare Giuseppe Verdi che gli accenna con voce flebile la romanza di Manrico… “Deserto sulla terra, col rio destino in guerra, è sola speme un cor al trovator!”. Vittorio Emanuele II incede altezzoso nella sua uniforme pluridecorata verso Emanuele Filiberto, appoggiato sull’elsa della sua lunga spada.
Il professore si ferma a guardarli per un po’, poi decide di proseguire imboccando via Roma. Tentenna qualche istante davanti all’elegante portone in noce a mascheroni scolpiti. Si volta e avanza sbandando sui marmi policromi del porticato a serliane. Le colonne, le lesene e le teste di gesso raffiguranti spaventosi animali mitologici, i torsi in agguato dentro le nicchie degli atrii, persino le cariatidi che sorreggono i balconi tentano di abbattersi su di lui. Agita le braccia nell’aria per sfuggire all’attacco. Alcuni passanti si voltano a guardarlo; sembrano deriderlo. Oltrepassa Piazza San Carlo, sovrastato dagli austeri edifici di Piacentini. Qui il ritmo dei portici si fa più fitto, scandito dalla lunga sequenza delle colonne binate. Arriva in Piazza Carlo Felice, su cui si staglia, oltre le onde verdi del giardino Sambuy, l’imponente vetrata semicircolare della Stazione di Porta Nuova. Uscendo dal tunnel dei portici, l’ariosa scena che si apre ai suoi occhi, irradiata dai bagliori del sole calante, scuote il petto dell’uomo, che si guarda intorno indeciso sulla direzione da prendere. Si incammina ricurvo verso via Nizza, imboccando un viale di portici costellati di lanterne cinesi. L’incrollabile istinto borghese gli ricorda l’ora della cena. Si infila in un ristorante che emana un tanfo di spezie rancide. Siede con mestizia in un tavolo da quattro, mentre due camerieri asiatici sogghignano dietro le sue spalle. Ordina un piatto di ravioli che galleggiano in un brodo denso e torbido. Davanti ai suoi occhi una stampa dipinta a mano sulla seta su cui campeggia un enorme dragone col corpo di serpente, pronto a sferrare l’attacco. L’uomo porta il cucchiaio alla bocca fissando l’animale. Paga il conto, barcolla, esce.
Fermo sulla soglia, Elias Labia solleva il bavero del blazer per proteggersi dall’aria pungente della serata primaverile. Una lunga serie di eleganti palazzi ottocenteschi, rigidamente allineati, si schierano davanti a lui come soldati fedeli. Qualche bottega alimentare ancora aperta espone ogni sorta di merce d’accatto. Nelle vetrine si riflette una sagoma stanca, che si trascina a fatica. Lo si vede da lontano appoggiare un braccio su un muro e chinare il capo. Cosa fa… si accascia, ma non sembra stare male. Siede per un po’, pensante, poi si distende e infine si accomoda per la notte. Dormirà in quell’angolo per tutte le notti dei mesi a venire.
“Da circa una settimana il professor Edward Eliot Blake risulta scomparso senza lasciare tracce di sé. Su richiesta della Gran Bretagna, l’Interpol ha spiccato un “avviso rosso” per l’arresto dell’illustre critico d’arte, accusato dell’assassinio della studentessa Ariadne Mills, massacrata con otto coltellate nei bagni del King’s College nell’estate del 1982. Ricorderete che per questo crimine fu ingiustamente accusato un giovane algerino recentemente morto suicida in carcere, dopo aver proclamato per anni la sua innocenza… E ora passiamo allo sport.”. Le breaking news della Bbc ribadivano la notizia più volte al giorno, per poi farla rimbalzare sul mondo in forma di tweet.
Madeleine Dunne, come ogni sera, aveva atteso la fine delle notizie di cronaca seduta a tavola, prima di scomparire in cucina portando con sé i pochi resti della cena e i piatti vuoti di suo marito.
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Maie S. Lorelli



1 commento:

  1. Il pur breve racconto già dalle prime righe appare assai ben scritto, ben articolato e costellato di sottili punte sarcastiche che, a mio modesto parere, denota una perspicacia direi dürrenmattiana.
    Il primo originale indizio sta nell’introduzione: - “miss Madeleine Dunne, intercettando, proprio nel punto centrale, la sinuosa ellisse tracciata dallo sguardo di suo marito giù alla zuppa vegetale, su alla Torino di De Chirico.” -
    Infatti, trovo ciò premesso un’eccezionale descrizione di un uomo profondamente turbato ed assorto nei suoi pensieri che, scenograficamente parlando, renderebbe l’idea anche al più distratto dei lettori.
    Lo stile (diciamo alla Haneke) appare intriso di una perfidia tutta occidentale che ben si addice alle famiglie agiate sui generis, dipingendo un ambiente distaccato, asettico e piuttosto lontano dalle ingiustizie del mondo.
    Così facendo, a nessun lettore verrebbe in mente di trovarsi di fronte un assassino. Nel contempo già si scorgono i tratti salienti di un “giallo” sprezzante nei confronti dell’alta borghesia moderna, permeata di caste e di perbenismo intellettuale, benché capace del delitto più atroce, per di più ingiustamente attribuito al più povero degli indifesi: uno straniero, il quale, essendo stato privato dell’unica ricchezza che il povero di per sé possiede, cioè la dignità, si sottrae la vita suicidandosi.
    L’irreprensibile “Sir Edward Eliot Blake”, dopo aver commesso un delitto con caratteristiche rituali, etiche, penali ed ideologiche, viene caricato di doppia personalità: la prima per chiedere riparo e venia all’arte, la stessa arte che, nella sua immortalità, lo annienta; la seconda in veste di misero mortale per sopravvivere esclusivamente per istinto atavico, lasciandosi però andare incontro all’oblio, avendo ormai perso la cognizione del tempo e dei luoghi.
    Ed così che i pensieri astrusi di “sir Edward” vanno mirabilmente a fondersi nell’agognata via di fuga, tra fantasia e realtà, insinuandosi tra i portici enigmatici della Torino dipinta da De Chirico. E, nella sua fissazione drammatica, quanto questo lambiccarsi cozza con le premurose “gracchianti” apprensioni della moglie, piuttosto protesa a voler trarre vantaggi dall’essere coniuge di una persona autorevole, nella quale sconcertante banalità appare nitida la voglia di essere catapultata nel mondo degli intellettuali. Al contrario si ritroverà sola, accompagnata esclusivamente dal sonoro del telegiornale e dal passato racchiuso in un piatto vuoto che attende invano il ritorno del legittimo commensale.
    Ed è proprio nel quotidiano metafisico, completamente in tinta con la tela di De Chirico, che si completa il capolavoro, facendo, appunto, coincidere l’amorfo scavo psicologico degli innominati con quello amorale dei personaggi principali, ognuno di questi travolto dalla propria albagia.

    Molto, molto interessante. Meriterebbe di cadere nelle mani di Sean Penn ed essere divulgato in ben altra maniera. Comunque: non è mai troppo tardi.

    Complimenti… bravissima.

    Antonio Carta

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