Libri che ti
convincano ad una rilettura sono sempre più rari; più numerosi sono infatti
sugli scaffali delle librerie i libri dalla lettura facile, che esauriscono la
loro funzione di intrattenimento dopo una rapida lettura globale. Sempre più
difficile quindi incontrare libri che conducano ad una riflessione, ad una crescita del lettore.
In quest’ultimo periodo ho avuto la ventura di
imbattermi in due testi narrativi molto diversi e lontani nel tempo di
scrittura. Il primo è Quell’antico amore di
Carlo Laurenzi, uscito nel ’72, al quale il tempo trascorso dalla prima lettura
niente ha sottratto all’eleganza della lingua, all’abilità nell’articolare la
storia nelle diverse parti, alla profondità della descrizione dei protagonisti.
Il secondo testo è di Erri De Luca, I pesci non chiudono gli occhi, un lungo
racconto autobiografico di un periodo così breve e così complesso come“ quell’età sospesa tra l’infanzia e
l’adolescenza che sono i dieci anni”, mentre il tempo narrativo di fondo è
quello racchiuso nelle vacanze su un’isola.
Il primo riscontro è soggettivo perché quell’Erri
bambino condivide, per motivi storici,
con me lettrice alcune esperienze. È la narrazione autobiografica che genera
empatia perché racconta anche episodi della nostra vita: la neve del ’56, i
libri bastioni per la difesa e la conoscenza, i banchi col calamaio dall’inchiostro
denso e le penne dal pennino traditore. E non solo, in quel continuo andare dal
passato dei dieci anni all’allora futuro dei venti, si proiettano le esperienze
dell’infanzia nelle scelte del futuro, come la scoperta della giustizia nei
rapporti infantili che quasi sempre si accompagnava nei giovanili all’aggettivo
sociale.
Vengono in mente, per personali suggestioni
letterarie, per l’ambientazione spaziale
e temporale, come per esperienze simili ma contrastanti negli esiti, L’ isola di Arturo e Agostino. Come Arturo ed Agostino, Erri si introduce ai
rapporti con i coetanei e gli adulti. Il piccolo Erri è coinvolto nella
violenza dei coetanei come il piccolo Agostino di Moravia, ma con una strana
ricerca della violenza ritenuta necessaria per crescere, per uscire dal corpo
ancora fermo in cui si sentiva
imprigionato, perché rimasto infantile,
indietro. A differenza di Agostino, lui
sì vittima di ragazzi prepotenti, Erri sembra avere la consapevolezza della
necessità di un rito di passaggio, di iniziazione e così decide tempi e modi
dell’aggressione.
Assenti i conflitti e gli abbandoni affettivi che
segnano le vite di Arturo ed Agostino, uno dei temi più sentiti ruota intorno
ai genitori. A dieci anni Erri
riteneva di aver imparato a conoscere gli adulti:
“ Attraverso
i libri di mio padre imparavo a conoscere gli adulti dall’interno. Non erano i
giganti che volevano credersi. Erano bambini deformati da un corpo ingombrante.
Erano vulnerabili, criminali, patetici e prevedibili. Potevo anticipare le loro
mosse, a dieci anni ero un meccanico dell’apparecchio adulto.”. Questo li rende degni della sua indulgenza. E
dispiega questa sua saggia conoscenza bambina quando deve fronteggiare,
nonostante il suo desiderio di non voler avere un peso, le due scelte opposte
del padre, che propone un trasferimento negli Stati Uniti, e della madre, che
intende restare a Napoli.
“ Là c’era la
velocità, là sarei cresciuto per forza, perché là tutto diventava grande,
spazioso, scarpe, gelati, macchine e tutti erano alti, soldati, scrittori,
operai … Poteva essere un buon posto per me …”,sono i pensieri di Erri, ma “ Laggiù, sì o no, era un affare da
sbrigarsi tra loro.”. E anche se in seguito sembrerà incoraggiare la
decisione della madre, avrà il timore di perdere il padre, senza il quale “… sarei venuto storto, avrei cercato di
appoggiarmi ad un muro come un rampicante che altrimenti striscia.”. La
conoscenza, la comprensione indulgente, l’affetto dei dieci anni si proietta
sulla vicinanza che continua dopo la
scomparsa dei genitori: “ Le vite
dei miei due stanno nella prigione degli assenti e non mi passa giorno senza
che aspetti fuori.”.
Agostino e
Arturo sono fratelli maggiori di Erri e nuotano l’uno nel realismo ruvido di
Moravia, l’altro nel realismo magico della Morante. Realismo poetico può forse
definirsi il tessuto narrativo di De Luca, perché espressione di un vissuto
tradotto in frasi brevi, lascito della madre e delle altre figure femminili
napoletane della sua famiglia: “Le loro
voci hanno formato le mie frasi scritte che non sono più lunghe del fiato che
ci vuole a pronunciarle”. Frasi brevi, ma non per questo destinate ad una lettura rapida e
superficiale. La brevità è misura, sincerità senza abbandoni, sentimento senza
affettazione. L’apparente semplicità nasce dalla decantazione delle esperienze,
perciò non è banale. E la poesia affiora e traduce un’esperienza, un
sentimento, una riflessione in molteplicità di significati, come sempre fa la
poesia.
Che bella recensione! Brava Rita mi fai venire voglia di comprarlo.
RispondiEliminaLuisella Sa
Un respiro ampio, profondo. Uno sguardo appassionato dentro sé stessi. Un'esperienza di lettore che vive dentro la storia, che coniuga le proprie esperienze con l'esperienza del mondo. Che scorge le luci che la letteratura (e l'arte)di volta in volta accende, che divengono fari a indicare il percorso di sconosciute rotte.
RispondiEliminaGianfranco Chironi
Gianfranco Chironi