20.12.11

IN ARTICULO MORTIS

Giaccio in questo scantinato umido e freddo che odora di passato. Immobile e abbandonato trovo compagnia nell’oscurità e nella follia che mi ha accompagnato nella mia strana vita, quasi un carattere ereditario che mi insegue già prima della nascita. Una follia ordinata che da bambino mi portava a posizionare sul banco i pastelli uno dopo l’altro in una fila ossessivamente regolare; utilizzavo per primo sempre il più basso non potendo servirmi del secondo se non dopo aver esaurito il primo. I miei disegni? Prima tutti verdi, poi venivano i marron, i rossi, i gialli e così via. Quando poi ho colorato di nero il cielo, il sole, tutta la mia famiglia, l’ insegnante ha convocato mia madre e mi ha fissato un appuntamento con lo psicologo infantile.
Tempo perso. La follia è un modo di stare al mondo, un magnete che aggrega tutto intorno al suo polo, irresistibilmente. Tutti folli dunque, ognuno a modo suo. Chi parla e chi ascolta. Chi scrive e chi legge.


La premessa era d’obbligo. Ora occorre che mi presenti. Permettete? Taylor, giudice della Corte distrettuale federale di San Antonio Texas. Al mio attivo un buon numero di esecuzioni capitali con iniezione letale, unanimemente riconosciuto come il metodo più efficace ed indolore per accompagnare il condannato alla fine senza traumi né inutili sofferenze. Non ho mai concesso una sospensione dell’esecuzione neppure temporanea. L’incertezza nuoce all’immagine del sistema giudiziario, i cittadini americani si devono sentire tutelati da un apparato forte che non guardi in faccia nessuno. Nella saletta dei testimoni avevo assistito personalmente a molte esecuzioni, seduto in prima fila, sulla mia nuca bianca come il marmo gli occhi appuntiti dei parenti delle vittime, padri e madri orfani di figli squartati e buttati in discarica, mariti ai quali resta del corpo violato della moglie non altro che una fede nuziale. Terroristi fondamentalisti, stupratori di minori, omicidi seriali e di massa. Nel momento decisivo alcuni bestemmiavano l’Onnipotente, altri piangevano su loro stessi e invocavano una Madre; incrociavo i loro innocui sguardi minacciosi, o spenti e assenti, ma tutti uguali nella bieca ottusità del male. Andavo ripetendo che per crimini tanto odiosi è democraticamente giustificato l’uso di armi eccezionali, quasi un codice militare di guerra che possa liberare il mondo dalle mele marce con l’anima in decomposizione.

È stato quando il direttore del penitenziario mi ha mostrato il nuovo lettino di contenzione in tutto simile ad un tavolo operatorio, che ho cominciato ad accorgermi che mi stava succedendo qualcosa di strano. Ho tenuto per me il mio malessere aspettando che passasse ma quando sono rimasto solo mi sono dovuto appoggiare, mio malgrado, a quel lettino perché le gambe erano diventate fiacche come quelle di un ubriaco. Poi ho cominciato a tossire, un tossire convulso di catarro profondo che mi affogava. Sfatto dal sudore andavo emettendo conati di vomito nel tentativo di liberare il respiro; temendo che qualcuno mi potesse sentire o vedere in quello stato sono salito sul lettino nel tentativo di far cessare quel senso di disfacimento globale. Una volta coricato la testa ha iniziato a reagire, come se il cervello entrato in un torchio subisse per compressione una trasformazione sostanziale: arrivare a toccarla era impossibile, qualsiasi movimento mi era precluso, la mia posizione orizzontale si era assolutizzata ed il mio corpo di uomo robusto aveva perso ogni pienezza rotondità e sporgenza fisica. Ero diventato piatto e liscio come se un falegname avesse lavorato alla mia uniformità di superficie. Il ricordo dei sensi che avevo perduto mi faceva sentire un blocco unico senza possibilità di divaricare le gambe mentre al posto delle braccia mi erano spuntati due accessori semoventi che potevano sporgere all’esterno come arti ma io su di loro non avevo alcun controllo. Mi era andata molto peggio che al dottor Jekyll, la sua fisicità infatti si era dissolta trasformandosi in un essere brutale, la mia invece si era estinta, cosificandosi. Ebbene sì, il giudice Taylor era diventato il lettino del condannato a morte. Dopo 30 anni di onorata carriera mi ritrovavo un cuscino mobile per testa, pensavo con un cervello di piume di gallina e respiravo con polmoni di gommapiuma, mi erano cresciute dappertutto orribili cinghie di bloccaggio, stavo sospeso tra cielo e terra per mezzo di un cilindro d’acciaio sul quale io, giudice-lettino, potevo essere posizionato a piacimento di una volontà rispetto alla quale ero un oggetto sottomesso e inanimato. Tra queste grottesche piume di gallina che mi ricordavano l’avanspettacolo, passava una lieve corrente elettrica che mi permetteva di articolare una sorta di attività paracerebrale: Qualcuno si era divertito a prendersi gioco della mia autorità di decidere della vita umana desideroso di impartirmi a tutti i costi una lezione di umiltà alla quale mi ribellavo arruffando le piume del cuscino. Fino ad oggi non avevo fatto che applicare le leggi dello Stato che altri uomini a me sconosciuti avevano approvato. Né la Suprema Corte né il Congresso si erano preoccupati di chiedere il mio parere. D’altra parte l’esecuzioni avvengono  in molti di quegli stessi Paesi che siedono onorevolmente sugli scranni dell’ONU a decidere di politica internazionale. Perché allora dovevo essere io l’agnello sacrificale sull’altare abolizionista? Più che una sentenza iniqua, e lo era, mi sembrava una vera fucilata alla tempia, senza contraddittorio e senza appello.

Mentre elucubravo astiosamente avvertii che qualcuno mi toccava, un grosso peso ora opprimeva la mia povera gommapiuma per tutta la lunghezza. Attorno a me un movimento frenetico di mani esperte ma nervose apriva cinghie, assicurava a me quel sovraccarico caldo e ruvido. Percepivo appena il respiro della bestia feroce e ingovernabile che non opponeva più alcuna resistenza e che per questo si era fatta pesante fino all’oppressione. I miei bracci meccanici venivano allargati a mo’ di croce e lì veniva fissato qualcosa che si adattava alla loro forma mentre intorno a me lo spazio era piombato nel silenzio. Ero io che non riuscivo a catturare la dimensione del suono o forse la parola si era pietrificata nell’ assoluta incomunicabilità? L’atmosfera immobile fu scossa da un tremolio crescente come l’annuncio di un terremoto, il respiro del grosso peso si era fatto irregolare, ora ansimava in spasmi che aumentavano di intensità progressiva, avvertivo per il contatto stretto i rantoli dell’agonizzante e avrei voluto fare qualcosa ma ero disarmato, continuavo invece a tenerlo avvinghiato a me mentre lo avrei voluto liberare perché sapevo che lontano dal mio abbraccio mortale avrebbe ripreso a vivere. Si dimenava si allungava e si contorceva come un folle in preda ad una crisi di eccitazione parossistica. All’improvviso si allontanò da me inarcando, credo, la schiena poi ripiombò pesantemente sferrandomi testate violente sul mio ignobile cervello di piume, una due tre volte. Dio sa se avrei voluto gridare “Fate qualcosa, porco giuda, non vedete che sta male! Ma chi siete voi, grandissimi bastardi senza pietà?!” Soffrivo insieme a lui perché il suo sudore era arrivato al lenzuolo penetrando nella mia gommapiuma. Sobbalzavo all’unisono con lui, si sarebbe portato appresso anche me se non fossi stato così ben ancorato alla colonna avvitata stretta al pavimento. Non so quanto durò quell’agonia, qualcuno dei presenti mi vomitò addosso tutto l’acido erosivo che teneva in corpo, mi arrivò perfino una puntura d’ago che mi fu estratto prima che mi venisse iniettata la miscela a base di pentothal. D’un tratto inaspettatamente tornò la calma, la belva aveva esaurito la sua forza o forse i farmaci avevano avuto ragione del suo ultimo impulso vitale. Stretti nell’assurdo abbraccio che ancora ci faceva una cosa sola ho sentito il suo cuore che batteva ancora. Ancora. Ancora. Sempre più flebile…Poi più nulla.

Mi sono accorto che lo portavano via perché la gommapiuma dei miei polmoni riprendeva l’antico spessore ma io ero devastato come dopo una battaglia: il lenzuolo strappato in più punti e imbrattato di ogni sorta di liquidi organici, la mia testa di piume neanche con una buona sprimacciata sarebbe tornata al suo volume ottimale, oltretutto si erano allentate le giunture e mi erano definitivamente partite le molle della schiena. Fu deciso che ero da riparare e venni portato in questo scantinato dove voi mi avete trovato, tra oscurità e follia. Tutto qui.

Questa storia sarebbe incredibile se da allora io non fossi diventato un altro. E se è vero che la pena comminata non cancella la colpa, è altrettanto vero che di questo aggiornamento del taglione io porterò le conseguenze per sempre. Come un ergastolo. Perciò, nonostante sia un lettino praticamente nuovo, nutro la speranza che mi fermino qui fino a quando decreteranno il termine della mia attività per fuori uso o…, se preferite, per abolizione della pena capitale.


Anna Porcu

Nessun commento:

Posta un commento