30.1.12

La vita, senza rimpianto


"Il vizio di parlare a me stessa" di Goliarda Sapienza
Selezione dei taccuini personali che la scrittrice catanese riempì per oltre trent'anni

di Alessandro Marongiu

«Da quando sono nata niente mi sorprende, niente mi entusiasma, ma questo senza dolore o invidia per gli altri che «vivono». A tredici anni vidi mia sorella piangere disperatamente e poi ridere come solo lei sa ridere di gioia. La sua gioia mi fece capire che nessuno poteva essere bello come lei. Nessuno, e capii che sarei morta presto. Lo capii, senza sofferenza né paura, come ora che sono morta da tanto, e nessun rimpianto mi prende di quella che fu la vita.»
Inizia così, con queste emozionanti parole significativamente prive di data, «Il vizio di parlare a me stessa» di Goliarda Sapienza (Einaudi, 270 pagine, 20 euro), selezione dei taccuini personali che la scrittrice e attrice catanese riempì giorno dopo giorno per oltre trent'anni, e cioè dal 1975, quando sentì l'urgenza di una scrittura meno aperta e condivisa, fino alla morte nel 1996. E se va detto che, avendola lei come inscritta nel proprio codice genetico (la madre, Maria Giudice, fu tra le altre cose segretaria provinciale del Partito Socialista e direttrice di «Il giornale del popolo»), la scrittura pubblica non poteva in nessun caso restar fuori neanche dalle sue pagine più intime, come quelle dedicate alla reclusione a Rebibbia per furto («la donna resiste meglio in carcere. Il perché è semplice: è sempre stata in casa (galera), ed essendo sempre stata più repressa nel sesso, nei movimenti e nelle decisioni, sente meno l'assenza della parola "libertà"»), va anche detto che, inevitabilmente, la materia di maggiore interesse è quella puramente autobiografica. È così che, ad esempio, i suoi tanti lettori odierni e chi non l'ha conosciuta, scoprono ragione proprio della vicenda di quel furto all'apparenza maldestro che la condusse in prigione: perché rubare dei gioielli a un'amica per poi rivenderli, ma facendo in modo che si potesse facilmente risalire a lei? Perché, dopo «la galera-inconscio di ieri», e cioè l'esistenza vissuta fino a quel momento, il carcere si offrì a Goliarda Sapienza come la materializzazione fisica di quello stesso inconscio, e lo stare in cella come l'occasione di un ritorno nel grembo materno, che è «severo sì, ma che ti dà un ordine alla giornata, decide sul tuo avvenire, ti nutre e ti priva di tutte le lotte e i contatti col mondo». Un'esperienza cercata, insomma, quale il prezzo (la pubblica gogna sulla stampa), e, al di là dei motivi forse «non tutti chiari, nemmeno a lei stessa» (Domenico Scarpa), ottenuta con la forza e l'energia vitale che ne contraddistinsero sempre la vita e la scrittura.

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